Decolonizzare la cooperazione internazionale per costruire democrazia

Fonte immagine A Cry for Decolonization • Science for the People Magazine
Ufficio Policy Focsiv – Negli ultimi anni è tornato il dibattito sulla decolonizzazione (Verso una cooperazione internazionale decolonizzata – Focsiv) e la localizzazione (La sfida della localizzazione dell’aiuto allo sviluppo – Focsiv). Gli sconvolgimenti geopolitici hanno rivelato ancora una volta la centralità dei rapporti di potere diseguali tra gli Stati nella cooperazione interazionale, che risulta sempre più piegata agli interessi nazionali dei più ricchi sui paesi impoveriti, con nuove forme di neocolonialismo. Questi i temi trattati nel seminario “Chukuana” (in lingua swahili “aiutarsi reciprocamente”), promosso dall’associazione Comunità Solidali nel Mondo, in collaborazione con Focsiv e la rete AOI, tenutosi lo scorso 30 ottobre. Carolina Casale, servizio civilista presso Focsiv, presenta qui la restituzione di quanto discusso dai relatori e dalle relatrici e le sue riflessioni sul tema a seguito della partecipazione al seminario
Parlare oggi di decolonizzazione è una necessità urgente. Il ritiro degli Stati Uniti dal sistema della cooperazione internazionale, con i drastici tagli ai fondi USAID, destinati ad aumentare, da un giorno all’altro hanno messo in luce la fragilità del sistema della cooperazione internazionale. Si tratta di una “guerra non dichiarata ai poveri! E a pagarne il prezzo saranno bambini innocenti”, denuncia Michelangelo Chiurchiù, presidente di Comunità Solidali nel Mondo. Le logiche neocoloniali ancora piegano l’aiuto pubblico allo sviluppo. Il Rapporto AidWatch 2025 restituisce una situazione preoccupante riguardo l’aiuto “camuffato”: solo Italia, Germania e Francia hanno speso 17 miliardi di euro in aiuto gonfiato, cioè un euro su cinque, per coprire le spese interne di accoglienza dei rifugiati, una tendenza preoccupante e in aumento che snatura l’aiuto pubblico allo sviluppo.
Per riportare la cooperazione internazionale sulla giusta rotta bisogna interrogarsi su come decolonizzarla, depurandola dalle logiche di dominio e appropriazione che ancora la attraversano.
Per costruire un futuro diverso per la cooperazione internazionale dobbiamo innanzitutto fare i conti con la nostra storia coloniale. Come spiega il professor Ruocco dell’Università La Sapienza, la colonizzazione permea la nostra condizione di cittadini europei: il colonialismo è intrecciato alla storia stessa dell’Occidente. Fin dal 1492, l’Europa ha costruito giustificazioni di superiorità della razza bianca per legittimare il diritto di appropriarsi di terre, risorse e persone. L’affermarsi della narrativa coloniale è avvenuto insieme allo sviluppo del pensiero occidentale moderno, cioè la teoria del progresso, perfettamente esposta nel discorso del presidente statunitense Truman nel 1947, in cui dichiarava la necessità di esportare il progresso (la civilizzazione e la tecnica) nel resto del mondo. È una logica che continua a permeare le nostre istituzioni, compreso l’ordine giuridico internazionale, e lo sguardo europeo sul mondo.
Prendere coscienza di questi meccanismi significa anche riconoscere l’esistenza delle asimmetrie di potere nei partenariati. È una realtà fattuale, negarla è controproducente. Come ha ricordato Francesco Petrelli (Oxfam), la cooperazione non è mai neutrale, né può esserlo: deve incidere in modo trasformativo sulle politiche e sulle relazioni. Il suo obiettivo deve essere il trasferimento reale di potere, per intervenire sulle asimmetrie e creare rapporti orizzontali. Cooperazione allo sviluppo significa dare ownership, titolarità, ai partner, cioè la possibilità di prendere in mano il proprio futuro. “Partnership vuol dire lavorare con, non per.” ha aggiunto. La ricchezza della cooperazione è nell’apprendimento reciproco tra partner, nell’intessere relazioni orizzontali costruite sull’ascolto e sulla fiducia reciproca.
È una pratica fatta di quotidianità e di cura, di cui ha dato testimonianza Valentina, referente italiana di “Comunità Solidali nel Mondo” in Tanzania. Traendo dalla sua esperienza sul campo, racconta che per lei l’agire decoloniale passa attraverso quattro “punti cardinali”: imparare la lingua locale, riconoscendo il potere del linguaggio come strumento coloniale, costruire relazioni durature, mettendo al centro il benessere della comunità locale, mantenere una mentalità aperta, pronta a lasciarsi stupire e fidarsi dei partner locali, anche nella gestione delle risorse.
Per l’Europa, questo cambiamento di paradigma è vitale. La Global Gateway Strategy (Il global gateway per gli interessi di chi? – Focsiv) riflette ancora una logica estrattivista, affidando all’intervento dei privati problemi che dovrebbero essere risolti dalle politiche pubbliche. Come ha sottolineato Ivana Borsotto, presidente Focsiv, occorre smascherare quando le nostre politiche sono predatorie e restituire alla cooperazione il suo senso originario: la redistribuzione delle ricchezze al servizio delle comunità, facendoci portatori del sistema del welfare.
Solo attraverso una cooperazione autentica, orizzontale e partecipata, l’UE potrà riconquistare credibilità agli occhi del Sud globale, di cui al momento non gode. I giovani africani, infatti, vivono oggi una situazione di “doppio abbandono”: da parte dei loro governi corrotti e da parte di un’Europa che chiude le frontiere e stringe accordi con dittatori africani per bloccare i flussi migratori. “È come se nessuno dicesse: questi sono figli nostri”, ha affermato in videomessaggio Mario Giro, professore presso l’Università per Stranieri di Perugia. Non stupisce, allora, che molti guardino alla Russia e alla Cina: un orientamento che indebolisce la democrazia e mette a rischio la stessa idea di cooperazione. Ecco che quindi la cooperazione assume un ruolo chiave nel mantenimento dei valori democratici e nella costruzione di un futuro di pace. Come ha dichiarato la presidente Borsotto “ogni esperienza positiva di cooperazione internazionale, in quanto esperienza vissuta di pieno godimento dei diritti, è un mattoncino poggiato a costruzione dell’edificio della democrazia”.
Come fare, dunque? A conclusione del workshop è stato presentato un decalogo di dieci buone pratiche per un intervento decolonizzato, che alleghiamo qui.