Debito ecologico e debito finanziario: due facce della stessa medaglia?

Fonte immagine Ecological Debt and Climate Debt – arvoreagua
Ufficio Policy Focsiv – Articolo di Andrea Stocchiero, policy officer Focsiv e coordinatore di ricerca al Centro studi politica internazionale per la rivista Mosaico di Pace (HOME), a supporto della campagna Cambiare la rotta (Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza – Focsiv; Cambiare la rotta – Trasformare il debito in speranza).
Il debito ecologico è un debito storico che ancora si sta accumulando tra paesi ricchi e impoveriti. Se ne sta parlando con riferimento in particolare alla questione climatica, ma esso comprende anche la biodiversità, lo scambio ineguale e la vera e propria depredazione di risorse umane e naturali, e quindi l’ambiente, le società, le economie, la finanza, la politica tra, schematicamente, il sud e il nord del mondo.
I paesi del Nord sono debitori nei confronti di quelli del Sud a causa delle crescenti emissioni di carbonio impennatesi duecento anni fa con la rivoluzione industriale. Emissioni che stanno causando il riscaldamento climatico, le cui conseguenze catastrofiche si stanno abbattendo soprattutto nei paesi del Sud e sulle popolazioni più povere e vulnerabili. Il concetto di debito ecologico è infatti legato a quello di giustizia climatica. Essa evidenzia che chi è maggiormente responsabile del riscaldamento climatico dovrebbe sopportarne di più i costi di mitigazione (riduzione delle emissioni) e adattamento (investimenti per ridurre l’impatto sul territorio e sulle popolazioni).
La giustizia climatica assume il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, formalizzato nel 1992 alla conferenza sul clima di Rio de Janeiro. Tutti i paesi contribuiscono al riscaldamento climatico, ma alcuni più di altri, e questa differenza dovrebbe tradursi in impegni politici e finanziari diversi, commisurati appunto alle diverse responsabilità e alle diverse condizioni ambientali e sociali, secondo l’etica della equità. Secondo l’analisidelClimate inequality report 2023, Fair taxes for a sustainable future in the global South – WID – World Inequality Database, “il 10% più ricco emette quasi il 50% dei gas serra, ha la maggiore capacità di finanziare la mitigazione e l’adattamento (76%), e subisce solo il 3% delle perdite; mentre il 50% più povero emette il 12% dei gas, ha solo il 2% di capacità finanziaria, e subisce il 75% delle perdite. Un rapporto chiaramente iniquo”.
I paesi del Nord, quelli più ricchi, con stili di vita che si traducono in grandi emissioni di gas ad effetto serra, dovrebbero urgentemente modificare i modelli di produzione e di consumo, mitigando le emissioni e sostenendo i costi di adattamento in particolare di chi subisce le conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici, ovvero i paesi più poveri tropicali e delle aree predesertiche, le isole, le comunità vulnerabili. Paesi e comunità, questi, che causano ben poco del riscaldamento globale e che sono meno in grado di finanziare la propria resilienza e transizione giusta. Far fronte al debito ecologico, alla giustizia climatica, significa quindi realizzare una grande misura di redistribuzione del reddito, e di potere, a livello internazionale, dal Nord al Sud, per sostenere le capacità dei paesi impoveriti di adattarsi e procedere a cambiamenti infrastrutturali e produttivi più ecologici, promuovendo i diritti umani delle popolazioni.
Il problema del debito ecologico e l’assunzione della giustizia climatica con il principio delle responsabilità comuni ma differenziate è stato acquisito formalmente alla COP28 con l’istituzione del Fondo per le perdite e i danni. E’ stata una decisione importantissima della comunità internazionale, perché il principio si è tradotto in pratica, in azione. Per la prima volta il Nord riconosce il suo debito nei confronti delle popolazioni più vulnerabili, e ha messo a disposizione 700 milioni di dollari per coprire le spese delle perdite e dei danni causati da eventi catastrofici alimentati dal riscaldamento climatico. Alla recente COP29 si sono discusse le modalità per rendere operativo il fondo, mentre la sua dotazione è stata di poco aumentata (Pledges to the Fund for responding to Loss and Damage | UNFCCC). Il risultato appare assai scarso considerato anche che l’obiettivo finanziario dei 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035 per i paesi in via di sviluppo (COP29 UN Climate Conference Agrees to Triple Finance to Developing Countries, Protecting Lives and Livelihoods | UNFCCC) è ben al di sotto di quanto stimato necessario: intorno ai 1.3 trilioni di dollari.
Ma la questione del debito ecologico comprende anche la biodiversità: il riscaldamento climatico modifica gli ecosistemi e molte specie, vegetali ed animali, sono minacciate di estinzione, e questo si va ad aggiungere alla depredazione di risorse naturali avvenuta con il colonialismo e l’imperialismo, e che ancora si produce attraverso forme neocoloniali come il land grabbing (si vedano i rapporti Focsiv: Land Grabbing e Agroecologia – Focsiv). Anche in questo caso si tratta di un debito storico da riconoscere. I paesi del Sud hanno maturato un credito che dovrebbe essere restituito, ma che in gran parte non potrà mai essere restituito: lo scandalo della schiavitù e l’esaurimento di molte risorse naturali finite e non riproducibili o difficilmente ripristinabili (le terre e acque morte, le foreste originarie distrutte, le biodiversità estinte) testimoniano un passato e un presente tragico, di cui purtroppo si perde troppo facilmente la memoria e di cui attualmente non si tiene conto. E’ “il fardello dell’uomo bianco” che si occulta con il perpetuarsi del racconto di uno sviluppo materiale senza limiti.
Uno sviluppo che ha fatto superare i cosiddetti punti di non ritorno. Non è chiaro ancora a tutti che così come le emissioni di carbonio in atmosfera si sono cumulate nel tempo, e si andranno a ridurre solo in centinaia di anni. Per cui le situazioni di criticità continueranno a perpetuarsi (e a peggiorare se non si agisce con urgenza) nei prossimi decenni, senza possibilità ritorno. Il fenomeno è irreversibile, ma pochi ancora lo comprendono. Allo stesso modo non è possibile ripristinare foreste primordiali o far rinascere specie scomparse, con una grande perdita irrecuperabile di vita. Già da alcuni anni analisi scientifiche parlano di sesta estinzione di massa. Un recente rapporto stima un grande declino del 73% delle dimensioni medie delle popolazioni di fauna selvatica monitorate in soli 50 anni (1970-2020) (Living Planet Report (LPR) 2024 del WWF). “L’Indice del Pianeta Vivente (LPI), prodotto dalla Zoological Society of London), comprende quasi 35.000 trend di popolazione di 5.495 specie dal 1970 al 2020. Il declino più marcato riguarda gli ecosistemi d’acqua dolce (-85%), seguiti da quelli terrestri (-69%) e da quelli marini (-56%). La perdita e il degrado dell’habitat, causati principalmente dal nostro sistema alimentare, sono la minaccia più segnalata per le popolazioni di fauna selvatica in tutto il mondo, seguiti dall’eccessivo sfruttamento, dalle specie invasive e dalle malattie. Il cambiamento climatico rappresenta un’ulteriore minaccia per le popolazioni di fauna selvatica dell’America Latina e dei Caraibi, che hanno registrato uno sconcertante declino medio del 95%.” (Catastrophic 73% decline in the average size of wildlife populations in just 50 years reveals a ‘system in peril’ – WWF’s Living Planet Report | WWF). E tutto ciò si ripercuote sulle popolazioni indigene e le comunità locali abituate da centinaia di anni a convivere in modo sano con questi ambienti.
L’altra faccia della medaglia del debito ecologico è quello finanziario: i paesi impoveriti che subiscono il debito ecologico dei più ricchi, sono i paesi che contemporaneamente subiscono un sistema che riproduce il loro debito finanziario. Il modello di sviluppo senza limiti e competitivo del nord (il paradigma tecnico-economico denunciato da Papa Francesco nell’enciclica Laudato Sì) causa sfruttamento e perdite delle risorse naturali e umane al sud, intrappolandolo nel debito finanziario. A sua volta il rimborso di questo debito genera ulteriore sfruttamento con ulteriori costi sociali e ambientali. Per pagare il debito, i paesi del Sud devono accelerare l’estrazione e l’esportazione (peraltro governata dalle grandi multinazionali) delle materie prime. Il rimborso del debito va a vantaggio del nord con maggiori deprivazioni al sud. Più deprivazioni al sud più lo rendono dipendente dallo sfruttamento del nord, in un circolo vizioso che si autoperpetua. E’ questa la storia del rapporto nord sud dai tempi coloniali e che si allarga ora con i paesi emergenti, nuovi poteri economici, finanziari e politici.
Far fronte al debito ecologico significa cercare di portare a soluzione anche il debito finanziario. Si tratta del grande compito di riformare l’architettura finanziaria internazionale. Non solo inserire nelle ristrutturazioni del debito finanziario una clausola legata al riscaldamento climatico, per cui i Paesi in debito possono modificarlo o addirittura ridurlo se sono colpiti da grandi catastrofi climatiche che riducono la loro capacità di rimborso, ma modificare in profondità il sistema finanziario. Chi decide dei tassi di interesse e del prezzo delle valute da pagare sono le banche centrali dei grandi paesi ricchi e i grandi fondi finanziari privati; le norme che stabiliscono i termini dei contratti sono quelle dei paesi sede delle borse dei capitali (USA e Gran Bretagna soprattutto); chi decide la ristrutturazione dei debiti pubblici è il club di Parigi che i riunisce i grandi Paesi creditori (ma che non comprende la Cina); chi interviene con pacchetti finanziari di sostegno sono il prestatore di ultima istanza, il Fondo Monetario Internazionale, e la Banca Mondiale, i cui principali azionisti sono i Paesi creditori. Anche la finanza privata interviene “a salvataggio” dei Paesi debitori ma con fondi avvoltoio che speculano sulla vita delle popolazioni impoverite. Il quadro comune per la ristrutturazione del debito creato dal G20, non sta funzionando, e comunque rappresenta appunto i vecchi e nuovi grandi poteri, non certo le popolazioni impoverite.
Vi sono anche iniziative che collegano il debito finanziario al clima: sono gli swap, per cui si scambia il pagamento del debito con la preservazione della natura, delle foreste per l’assorbimento del carbonio. Ma questa è una forma di finanziarizzazione della natura, di ipoteca su beni comuni, che si attua sulle teste dei popoli indigeni e delle popolazioni locali. Allo stesso modo anche i crediti di carbonio e sulla biodiversità (per cui chi inquina paga sostenendo investimenti nella conservazione della natura) sono forme di finanziarizzazione che impongono dall’alto misure che possono avere conseguenze negative per le popolazioni locali, a meno che non siano gestite proprio da queste popolazioni.
Le comunità indigene stanno reagendo alla lentezza e all’inefficienza dei finanziamenti per proteggere la natura e il clima creando fondi autonomi per accelerare l’accesso diretto alle risorse necessarie (As donors dither, Indigenous funds seek to decolonise green finance). Nonostante la crescente domanda di finanziamenti internazionali, infatti, solo una minima parte di questi (1-2%) raggiunge direttamente le comunità. Il grafico seguente indica come i fondi siano sempre ben inferiori al miliardo di dollari, con una media di circa 400 milioni di dollari all’anno dal 2016. Dal 2020 sono stati creati nuovi fondi, come il Mesoamerican Territorial Fund (MTF), il fondo Shandia (della Global Alliance of Territorial Communities) e il Nusantara Fund in Indonesia, per superare le barriere burocratiche, garantendo una distribuzione più rapida delle risorse e promuovendo la giustizia climatica, investendo in progetti locali anche su piccola scala legati alla sostenibilità. Questi fondi non solo mirano a garantire che il denaro raggiunga i “veri guardiani” delle foreste, ma anche a sostenere la democrazia, la governance e la sostenibilità nei territori.
Infine, su questi temi sta partendo la campagna Cambiamo la rotta: debito e clima, che riunisce organizzazioni cattoliche e non, che nell’anno del Giubileo cercano di sensibilizzare le donne e gli uomini di buona volontà affinché si trasformi questo sistema finanziario globale mettendo al centro i diritti dei popoli impoveriti con la natura. Si chiedono soluzioni politiche portando il sistema finanziario sotto l’egida delle Nazioni Unite con nuove regolazioni e politiche finanziarie, per la ristrutturazione giusta del debito finanziario, con una nuova finanza climatica che riconosca appieno il debito ecologico, con maggiori risorse pubbliche per la cooperazione allo sviluppo (home – campagna 070).