I segni dei tempi. Don’t look up.
di Mario Carmelo Cirillo, attivista FOCSIV
«Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia”; e al mattino: “Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo”. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?» (Vangelo di Matteo, 16, 2-3)
Con queste parole Gesù risponde a farisei e sadducei, due gruppi presenti nel variegato panorama della Palestina di quel tempo, che gli chiedono di mostrar loro un segno dal cielo.
E noi, quanto siamo capaci di interpretare i segni dei tempi? E ammesso che ci riusciamo, in che misura questo si traduce in azioni concrete?
Il mio parere è che spesso facciamo fatica a interpretare correttamente i segni dei tempi, e quando qualcuno – magari autorevolmente e con chiarezza – ce li squaderna, abbiamo poco o punto propensione ad agire di conseguenza.
Una illustrazione efficace di questo mi sembra il film Don’t look up con Leonardo Di Caprio, uscito a fine 2021(*): una dottoranda in astronomia, coadiuvata dal suo professore, scopre l’esistenza di una cometa che colpirà in pieno la Terra in poco più di sei mesi, di dimensioni tali da comportare la distruzione completa di qualsiasi forma di vita sul pianeta. Seguono i tentativi fatti per evitare la catastrofe, tutti falliti. Infatti il Presidente USA, che è una donna, non ha alcuna intenzione di occuparsene in quanto presa dai suoi calcoli elettorali. Fallisce miseramente anche il tentativo di informare la cittadinanza tramite la televisione perché la dottoranda, irritata per il tono troppo leggero e scettico con cui la notizia viene trattata durante il talk show, esplode in escandescenze in diretta, perdendo qualsiasi credibilità e diventando lo zimbello del web e dei social.
Allorché la Presidente resta coinvolta in uno scandalo a luci rosse, per deviare l’attenzione decide di occuparsi del pericolo mettendo in atto un piano per distruggere la cometa, curando naturalmente che il tutto abbia un gran clamore mediatico. Anche in questo caso però l’operazione fallisce per l’avidità di un imprenditore, tra i maggiori finanziatori della Presidente, che fa passare l’idea di potersi appropriare dei materiali rari e preziosi di cui è composto il nucleo della cometa, e propone un piano alternativo che però fallisce, per cui la catastrofe è inevitabile.
Una volta capito che non ci sono più speranze, la Presidente con altri ricchissimi americani fuggono nello spazio a bordo di un’astronave attrezzata per ibernare i passeggeri e raggiungere un possibile pianeta abitabile. Dopo più di 22.000 anni l’astronave atterra su un pianeta ricco di vegetazione, dove i passeggeri si destano dal sonno criogenico e vengono avvicinati da colorate creature vagamente simili a struzzi e apparentemente pacifiche che però, come primo gesto, divorano la Presidente per poi circondare gli altri sopravvissuti.
In finale di film si vede il figlio della Presidente, un incapace vanesio a suo tempo nominato dalla madre capo di gabinetto, abbandonato sulla terra dalla Presidente nella concitazione della partenza e miracolosamente sopravvissuto alla catastrofe, che non trova niente di meglio che riprendere e postare il disastro che lo circonda per vedere quanti “like” riceve.
Lo stesso DiCaprio spiega (https://www.youtube.com/watch?v=sm2u3knkntw) che il film è una metafora delle catastrofi, già in atto, dovute ai cambiamenti climatici nonché agli altri connessi disastri indotti dall’uomo, inclusa la pandemia che ci affligge da oltre due anni. A questo si aggiunge una sorta di humor nero nell’evidenziare i principali, devastanti tic del nostro tempo, in particolare le posture assunte dai potentati politici ed economici e dai media, in particolare talk show e social, nel trattare questioni che ci dovrebbero coinvolgere molto più seriamente e profondamente.
C’è da dire che le scale temporali dei due ambiti interessati dalla metafora sono differenti: mentre la cometa impiega sei mesi dalla sua scoperta per impattare contro la terra devastandola, è da svariati decenni che si discute degli impatti dei cambiamenti climatici; come ho già scritto in un precedente articolo (https://www.focsiv.it/cop-26-decarbonizzarci-o-adattarci/) da giovane ricercatore partecipai i primi anni ‘80 del secolo scorso a un convegno sul clima, e già all’epoca – una quarantina di anni fa – la comunità scientifica internazionale era consapevole dei gravissimi impatti dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo che si sarebbero verificati se non ci fosse stato un profondo cambio di rotta.
Il cambio di rotta non c’è stato.
Tre o quattro decenni fa si era in tempo per avviare una vera transizione ecologica (per usare un termine di moda) con una gradualità che avrebbe assicurato costi economici e sociali più che sostenibili, cosa che oggi, con tempi molto più stretti e con questo modello di sviluppo al quale non si ha nessuna intenzione di rinunciare, è molto più complicata: basta vedere quello che sta accadendo con il forte incremento dei costi dell’energia e la connessa necessità, anche da parte di paesi europei come Germania e Francia, di incrementare l’utilizzo del carbone (https://www.agi.it/economia/news/2022-02-07/energia-francia-germania-aumenta-uso-carbone-15522982/), mentre in Italia si parla di aumentare la produzione domestica di gas naturale. Altro che transizione verde! Tensioni geopolitiche (vedi la crisi Russia-Ucraina) e una ripresa economica che necessita di più energia – per non parlare della crescente necessità di materie prime come le terre rare per i dispositivi digitali e per le batterie, di cui si avverte ampiamente la scarsità – di fatto sono un grosso ostacolo al rispetto dei tempi della cosiddetta “transizione verde”, i cui obiettivi in Unione Europea sono: conseguire la neutralità climatica (cioè zero emissioni nette di gas serra) entro il 2050, e come passo intermedio la riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 55% entro il 2030. La ristrettezza dei tempi rende difficilissimo assorbire senza grandi contraccolpi criticità impreviste che, purtroppo, si possono verificare – e si verificano, come stiamo vedendo. Onestamente credo che sarà molto arduo raggiungere questi traguardi, per non parlare dell’obiettivo globale sottoscritto a Parigi nel 2015 da ben 195 Paesi – in pratica tutto il mondo – di contenere l’incremento della temperatura media globale molto al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, in particolare limitandolo a 1,5°C. E questo come sappiamo ha tragiche conseguenze soprattutto per i più poveri e vulnerabili, mentre i ricchi se ve vanno nello spazio.
Il punto è il nostro modello di sviluppo, basato sul cosiddetto neoliberismo.
È un modello di sviluppo che viene da lontano (cfr.https://www.focsiv.it/post-economia/), e che ha un imperativo: bisogna consumare per far crescere l’economia. È un modello che struttura la nostra realtà come un immenso Paese dei Balocchi, in cui il consumatore può disporre, se ha danaro e mezzi a sufficienza, di qualsiasi cosa in tempi rapidi, l’importante è che consumi: cibo, vestiti, dispositivi elettronici, macchine, case, spettacoli, turismo, gioco, sesso … e via dicendo. Se il consumatore non compra, mette in sofferenza chi produce e chi vende quei beni e quei servizi, per cui bisogna fare di tutto perché il consumo ci sia e si incrementi, se no sono guai – e lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle durante i terribili giorni dei lock down.
Poco importa se questo ha delle conseguenze in termini di devastazioni ambientali e di crescita delle disuguaglianze, sia al nostro interno che tra il nostro mondo e Paesi dell’Africa, dell’Asia e del Sud America oggetto di crescenti appetiti predatori da parte nostra (vedi i rapporto su Padroni della Terra di FOCSIV). Così accanto a situazioni di miseria, di emarginazione, di guerra, di discriminazioni, di respingimenti che disonorano il genere umano convivono le imprese di super ricchi che fanno turismo spaziale o finanziano a suon di miliardi startup che studiano tecniche per allungare la vita.
Nonostante queste immense, tragiche contraddizioni, sembra che noi si rimanga attaccati con le unghie e con i denti al modello “Paese dei balocchi”. Questo attaccamento a un modello estremamente pervasivo, che permea e condiziona tutta la nostra esistenza – basta pensare alla nostra dipendenza dal web, dai social, dallo smartphone, al bombardamento continuo delle pubblicità – ha implicazioni pesanti sulla nostra percezione profonda della realtà; in particolare rifiutiamo istintivamente qualsiasi elemento che sia in contraddizione o in conflitto con questo paradigma.
La metafora del film Don’t look up in proposito è calzante e inquietante, in quanto mostra un sistema restio alla resipiscenza fino al proprio annientamento; nel film si evidenzia, talvolta con toni macabramente umoristici, l’insofferenza e il rifiuto di prendere sul serio una cometa che sta per impattare con la terra non solo da parte di politici e affaristi imbelli e corrotti, ma anche da parte di tanta gente comune, assorbita dai social e da un modello di vita che è poi il nostro. E se qualcuno si sforza di comunicarci i “segni dei tempi” che mettono profondamente in discussione questa narrazione noi lo ignoriamo o, peggio, lo deridiamo.
Percepisco, al di là delle frasi politically correct e di circostanza, e della retorica istituzionale o religiosa, come vi sia una diffusa insofferenza, per non dire un senso di repulsione, verso concetti quali sacrificio, rinuncia, frugalità, risparmio, dolore, lutto e via dicendo: tutto deve essere perfetto, levigato, lucente, bisogna essere sempre “vincenti”. Ma non per essere felici – non è questa la priorità vera, anche se viene dichiarata spesso e volentieri, e probabilmente si era più felici quando i livelli di vita erano più bassi – ma perché solo così ci qualifichiamo come consumatori all’altezza! Siamo tutti devoti della nuova onnipervasiva religione, il capitalismo, come afferma Luigino Bruni ne “Il capitalismo e il sacro” (2019).
Se le cose stanno in questi termini, il cambiamento non può che essere un cambiamento nel profondo e non soltanto nelle regole, ed è prima di tutto sul profondo che occorre agire. Può darsi che questo stia già avvenendo, e comunque vi sono dei segnali in tal senso.
Intanto un numero crescente di studiosi di materie economiche e sociali, come Massimo De Carolis (Il rovescio della libertà, 2017), Francesco Maggio (Posteconomia, 2020), Mariana Mazzuccato (Non sprechiamo questa crisi, 2020), Andrea Boitani (L’illusione liberista, 2022), oltre Luigino Bruni già ricordato, anche a seguito dell’esperienza pandemica, esprime critiche e perplessità crescenti nei confronti di questo modello di sviluppo.
A un livello più generale e profondo, da alcuni anni sono in corso riflessioni ad ampio spettro sulla realtà odierna, sui suoi rapporti con la tecnologia, sulla consapevolezza di essere in una nuova epoca – antropocene – il che implica la necessità di una metamorfosi del nostro modo di interfacciarci con la terra: in particolare essa non deve considerarsi come un giacimento passivo di risorse di cui noi possiamo disporre a piacimento, magari esaurendolo, ma un super-organismo vivente, Gaia o Madre Terra, e noi non siamo al di sopra di essa ma ne facciamo parte a tutti gli effetti, e siamo fortemente interconnessi con le altre forme viventi, per cui il nostro benessere dipende dal benessere di Gaia. Questa riflessione globale viene spesso connotata col termine “postumanismo”, a indicare un superamento della visione attuale; un riferimento degli studi sul postumano, oltre che del femminismo a livello internazionale, è Rosi Braidotti, intervistata da Felice Cimatti nella puntata di Uomini e Profeti del 6 febbraio 2022 che si può riascoltare in podcast.
Sul piano pratico menziono soltanto le iniziative dei giovani, che si coagulano in movimenti come Fridays for Future, e hanno fatto sentire la loro voce durante i lavori del G20 di Roma (30 e 31 ottobre 2021), e della COP 26 di Glasgow (1 – 13 novembre 2021); e le eroiche resistenze delle popolazioni indigene contro i tentativi, spesso cruenti, di espropriarli dei loro territori: il loro impegno di frequente costa la perdita della vita, come è accaduto a Breiner David Cucuñame López, un 14enne attivista ambientale assassinato in Colombia lo scorso gennaio.
Grandi rischi dunque, ma anche grande fermento di pensiero e di iniziative.
Certo ci vorrà del tempo perché questo nuovo approccio venga interiorizzato e le iniziative vengano condivise su larga scala dalla gran parte della popolazione, anche perché l’attuale modello di sviluppo è abilissimo nel neutralizzare qualsiasi tentativo di spodestarlo, e utilizza la tattica gattopardesca di assumere forme e narrazioni innovative senza che nella sostanza nulla cambi: sono anni che siamo inondati nei media, nei social e nel web da termini come sostenibile, ecocompatibile, green, a emissioni zero e via dicendo; inoltre tutte le aziende ormai adeguano la propria immagine a questa narrazione. Il punto è che quasi sempre si tratta di un cambio di forma, ma non di sostanza: di fatto le cose marciano più o meno come prima, o con miglioramenti che non sono affatto proporzionati all’entità dei rischi e alla ristrettezza dei tempi per farvi fronte.
C’è da augurarsi che il cambiamento non avvenga al prezzo di catastrofi ambientali, sanitarie, economiche e sociali molto maggiori di quelle che ci stanno già toccando, ma non mi sento di escluderlo.
È essenziale mettere in campo azioni capillari di informazione e formazione, soprattutto nei confronti dei bambini e dei giovani e – ovviamente – dei formatori sia laici che religiosi. In queste attività vanno sottolineate le differenze tra una sensibilità ecologica di facciata, salottiera, da talk show, purtroppo molto diffusa, e un cambiamento profondo che implica soprattutto un farsi carico del problema nel vissuto quotidiano.
In particolare è strategico lavorare con i bambini, poiché la mente di un bambino è in evoluzione e quindi ha quella flessibilità e plasticità tali da assimilare con facilità e interiorizzare i concetti della nuova visione. Mamme, papà, nonne e nonni, insegnanti, catechiste e catechisti, istruttrici e istruttori, formatrici e formatori, comunicatrici e comunicatori, diamoci da fare!
(*) Ringrazio i miei amici Antonio e Matilde per avermelo segnalato qualche settimana fa durante una piacevole camminata all’aria aperta.