COP 26: DECARBONIZZARCI O ADATTARCI?
di Mario Carmelo Cirillo, attivista FOCSIV
È in corso la COP 26, l’annuale Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che quest’anno si tiene a Glasgow, Scozia, e se ne fa un gran parlare sui media e sui social. Il tema del clima tiene banco, i toni apocalittici la fanno da padroni, analisti alcuni più, altri meno improvvisati sul tema occupano le tribune della radio e della televisione e scrivono articoli ed editoriali a manetta; devo dire che non è infrequente che “essi sembrano essere persone che seguono le onde capricciose alla superficie del mare senza tener conto delle correnti profonde che lo muovono”(*), comunque il dato di fatto è che tutti finalmente abbiamo scoperto i cambiamenti climatici; il che è sicuramente molto positivo, era ora! Ma, come spesso succede agli umani, si rischia di chiudere i cancelli quando i buoi sono scappati: un altro caso paradigmatico è quello della pandemia in cui siamo immersi, con l’aggravante che sento spesso parlare – sbagliando – di post-pandemia, ma non mi dilungo su questo.
Un episodio che mi “illuminò” sui cambiamenti climatici fu la partecipazione, i primissimi anni ‘80 del secolo scorso, a un convegno internazionale sul clima tenutosi presso il Centro Ettore Majorana di Erice, in provincia di Trapani. All’epoca ero un entusiasta “ragazzo di bottega”, e tra i partecipanti di spicco ricordo con particolare piacere, per il suo esprit de finesse e la sua affabilità, oltre che per la sua grande competenza, Claude Lorius, classe 1932, uno dei padri della paleoclimatologia: sua l’intuizione che le bolle d’aria intrappolate nei ghiacci artici per millenni possono rivelare la composizione dell’atmosfera nel lontano passato. Nel convegno non uno dei temi che vengono trattati e discussi oggi (spesso con superficialità) sui media e sui social fu trascurato. A livello previsionale, sulla base delle migliori competenze scientifiche dell’epoca – e al convegno erano tutte presenti – tutto quello cui stiamo assistendo oggi attoniti, sorpresi e spaventati, era analizzato, valutato e discusso. Parlo di quasi quaranta anni fa, allora la concentrazione dell’anidride carbonica in atmosfera era intorno a 340 parti per milione, oggi veleggiamo allegramente verso le 420 parti per milione – mai vista una cosa simile in atmosfera da 800.000 anni a questa parte! La comunità scientifica più avanzata era consapevole dei rischi (allora erano ancora tali, e non danni reali) che un aumento di concentrazione dell’anidride carbonica e degli altri gas a effetto serra in atmosfera avrebbe comportato per il pianeta. Ma, si diceva, siamo ancora in tempo per affrontare efficacemente questi rischi, ancora in tempo per informare e rendere consapevoli decisori e opinione pubblica, e di conseguenza mettere in atto le azioni opportune.
Nel 1992 c’è stato il Summit della Terra di Rio de Janeiro, la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente, dove tra l’altro si finalizzò la Convezione quadro sui cambiamenti climatici che pose le premesse per il Protocollo di Kyoto, pubblicato nel 1997 in occasione della COP 3 tenutasi a Kyoto ed entrato in vigore nel 2005, che prevede che i Paesi industrializzati riducano del 5% le proprie emissioni di gas serra nel periodo 2008-2012 rispetto alle emissioni del 1990. Dieci anni dopo Rio il summit mondiale a Johannesburg (detto anche Rio+10), dove si è discusso dello stato di attuazione delle decisioni prese a Rio; al summit non partecipò alcuna delegazione ufficiale degli USA, l’allora presidente G. W. Bush non considerò l’avvenimento di rilevanza per il suo Paese. Poi nel 2015 la COP 21 di Parigi, dove si è preso atto che la frittata è in gran parte fatta e si possono solo limitare i danni del riscaldamento globale contenendolo a 1,5 – 2 gradi centigradi. Adesso la COP 26 di Glasgow.
Tutto questo senza nessun sostanziale cambio di rotta nella realtà, per cui andremo a sbattere. Il punto – e non è poco – è capire se ci andiamo a tutta velocità o riusciamo a frenare almeno un poco per limitare i danni. Io spero che prevalga la seconda ipotesi, e mi pare che ci siano le condizioni visto l’impegno storico dell’Unione Europea e quello novello degli USA, che sicuramente sono fattori significativi di pressione sui grandi emettitori riottosi: Russia, Brasile, India e Cina. Per quest’ultima c’è da notare che la consapevolezza degli impatti dei cambiamenti climatici ha favorito la messa in opera di processi significativi sulle energie alternative (a una scala, si badi bene, che deve tenere conto delle dimensioni e della popolazione del Paese), ma la Cina ha valutato che il massimo che può fare è raggiungere zero emissioni nette di anidride carbonica nel 2060. India e Russia nel 2070.
C’è da sottolineare che in tutta questa complicata faccenda non ci sono colpevoli e innocenti, come è stato giustamente sottolineato dal nostro Presidente del Consiglio: i Paesi che oggi sono i più virtuosi, come quelli europei, o che dichiarano di volerlo diventare in tempi brevi, come gli USA (e meno male che c’è Biden e non Trump, per quanto la strada dell’attuale presidente non mi sembra per nulla in discesa), dalla rivoluzione industriale fino all’altro ieri hanno allegramente emesso gas serra, ed a questi Paesi è da ascrivere senza alcun dubbio la massima responsabilità dei danni ambientali. Questo ha permesso lo straordinario sviluppo del cosiddetto Nord del Mondo, che non mi pare voglia fare rinunce all’attuale standard di vita, a parte le chiacchiere. D’altra parte i Paesi oggi più riottosi a ridurre le emissioni di gas serra rivendicano il loro diritto di raggiungere gli standard dell’Occidente sviluppato, e chiedono risarcimenti ai Paesi che hanno emesso in passato. Insomma, nessuno vuole fare passi indietro.
Alla luce di quanto sopra mi sembra ragionevole che l’Italia, fermo restando il suo impegno all’interno dell’Europa per perseguire gli obiettivi di decarbonizzazione nei tempi stabiliti, debba seriamente considerare la possibilità del non raggiungimento di tali obiettivi a livello globale. Mi costa molto scrivere questo, svanita da molti anni l’illusione di poterne uscire senza o con pochi danni, ho sperato fino a poco tempo fa nella possibilità di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi, ed ho anche pensato che la terribile esperienza della pandemia favorisse un cambiamento di rotta del sistema produttivo globale e dell’economia, ma i fatti mi inducono a prendere atto che non è così.
Di conseguenza credo che l’Italia, accanto agli sforzi da mettere doverosamente in campo per la decarbonizzazione, deve dare massima priorità al contrasto del crescente dissesto idrogeologico, alla connessa manutenzione delle infrastrutture (strade, ferrovie, viadotti, gallerie e via dicendo), e alla tutela delle risorse idriche. È sotto gli occhi di tutti – e quanto è accaduto a Catania e dintorni alcuni giorni fa lo conferma – che questi ambiti sono già in condizioni molto critiche, e se un incremento delle temperature ben oltre 1,5 gradi non è da escludere, ciò significa che nei prossimi anni le criticità aumenteranno enormemente, soprattutto se non si prendono con grande tempestività e pragmatismo gli opportuni provvedimenti. Provvedimenti che, si badi bene, bisognava realizzare da decenni, ma che adesso diventano più che mai drammaticamente urgenti.
Aggiungo a queste criticità quella degli incendi estivi, destinati a incrementarsi anno dopo anno se non c’è un deciso cambio di rotta che deve contemplare un presidio del territorio per il quale non bastano droni, elicotteri, aerei e satelliti, ma necessita della presenza fisica di tecnici e operai nelle aree critiche, e la stessa cosa vale per il dissesto idrogeologico. Tanto per rimanere sul tema degli incendi, è chiaro che non basta spegnere le fiamme con gli aerei se poi non si interviene nel sottobosco con pale, picconi e idranti per creare le opportune discontinuità nella propagazione delle fiamme, e per evitare che focolai si ravvivino una volta terminate le operazioni di spegnimento dall’alto. Questo vuol dire che il tema del ripopolamento delle zone marginali, che si interseca con la valorizzazione dei borghi e con l’utilizzo virtuoso degli immigrati, va affrontato con urgenza e decisione; a quest’ultimo proposito menziono il progetto europeo MATILDE, che si focalizza sui possibili effetti positivi delle migrazioni per lo sviluppo delle aree rurali e montane.
Insomma alla domanda “decarbonizzarci o adattarci?” la risposta giusta è “tutt’e due”, ma insisto sul punto che messa in sicurezza del territorio e delle infrastrutture, e tutela delle risorse idriche sono priorità non più rinviabili, e alle risorse messe in campo dal PNRR fino al 2026 deve aggiungersi uno sforzo a livello centrale e locale che vada ben oltre quella data, realizzando un mutamento radicale di approccio nella tutela del territorio e dell’acqua che deve essere definitivo e permanente. Senza trascurare tutto il resto (inquinamento dell’aria per i suoi gravi impatti sulla salute, biodiversità, plastica, rifiuti, mobilità ecc. ecc.), è ovvio.
Mi rendo conto che il quadro che emerge non è roseo, sia a livello nazionale che a livello globale, ma oggi più che mai è fondamentale non gettare la spugna, perché abbiamo delle responsabilità nei confronti dei nostri figli e nipoti. E poi non è affatto detto che tutto vada a scatafascio: il clima, insieme all’economia e alla società che sono i determinanti delle emissioni antropiche di gas serra, e più in generale dell’inquinamento del pianeta e del depauperamento, spesso irreversibile, delle sue risorse, sono sistemi complessi, caratterizzati da processi non lineari e ricorsivi, per cui è praticamente impossibile sapere come andrà a finire, nel bene e nel male. Certo è possibile che ci saranno dei prezzi molto alti da pagare, certo è possibile che i prezzi più alti li pagheranno i poveracci mentre tanti ricchi più o meno se la caveranno quanto meno nel breve periodo (ahimè, non è vero che siamo tutti sulla stessa barca, c’è chi sta su uno yacht alle Bermuda e chi su un gommone sgonfio in mezzo al Mediterraneo), ma è parimenti possibile che da tutto questo drammatico guazzabuglio ne venga fuori pure qualcosa di buono: la consapevolezza è enormemente aumentata rispetto a solo qualche anno fa, e il fatto che chi ci perde da questo andazzo sia sempre più numeroso rispetto a chi ci guadagna ha un suo peso, che sta aumentando vigorosamente nel tempo.
Essenziale, quindi, è non mollare: auguri mondo!
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(*) L’espressione non è mia, l’ho rubata a Giuseppe Scattolin, missionario comboniano, che l’ha usata in tutt’altro contesto.