Il coronavirus scuote l’Africa
La pandemia colpisce in Africa subsahariana un paziente già fragile e portatore di patologie pregresse multiple. È difficile immaginare un urto meno che drammatico per tutta l’area, ma l’impatto e gli effetti di breve e lungo periodo non si manifesteranno necessariamente nella maniera in cui si stanno delineando altrove. Scrive Giovanni Carbone, Responsabile ISPI Africa Centrale su ispionline.
La pandemia colpisce in Africa subsahariana un paziente già fragile e portatore di patologie pregresse multiple. È difficile immaginare un urto meno che drammatico per la regione, ma l’impatto e gli effetti di breve e lungo periodo non si manifesteranno necessariamente nella maniera in cui si stanno delineando altrove. Numerosi tratti specifici della regione – o almeno comuni ad ampie parti di essa – potrebbero svolgere un ruolo rilevante nel fare da amplificatori oppure da riduttori per la diffusione della pandemia. Tra i fattori di potenziale contenimento sono stati evocati aspetti climatico-ambientali forse avversi al virus, l’età media estremamente bassa, la limitata densità di popolazione, una mobilità umana comparativamente ridotta, specificità immunologiche di genti diverse, e l’esperienza recente nella lotta ad altre epidemie. Sul fronte opposto, i possibili moltiplicatori includono la co-morbidità legata alla prevalenza di HIV/Aids, tubercolosi o altre malattie endemiche, gli affollati insediamenti delle baraccopoli e dei campi profughi, la notevole estensione di famiglie e parentele, la diffusa insicurezza economica e alimentare, il limitato accesso all’acqua (e dunque all’igiene preventiva), la porosità dei confini nazionali scarsamente controllabili. L’esempio più chiaro è il dato di una popolazione subsahariana nel complesso giovanissima, con il 50% che non supera i 18 anni (contro il 20% per l’Europa) e solo il 3% con 65 anni o più (l’Italia arriva al 23%). L’impatto del Covid-19 ne sarà indubbiamente condizionato.
Ma non c’è da girarci attorno, il colpo del Covid-19 sarà comunque pesantissimo anche a sud del Sahara, anzitutto naturalmente sotto il profilo sanitario. Nonostante l’iniziale, rapida risposta continentale nell’attrezzare centri in grado di effettuare la diagnosi del coronavirus, i sistemi sanitari africani sono drammaticamente sotto-attrezzati per i necessari servizi di prevenzione, diagnosi, assistenza e cure. Dati i limiti nelle capacità di cura, l’indicazione dell’OMS Africa è quella di focalizzarsi sulla prevenzione e il contenimento della diffusione del virus. Due terzi dei paesi subsahariani hanno adottato misure di lockdown.
Il coronavirus accompagna l’Africa fuori da un ventennio di relativi successi economici – seppure dal 2015 ben meno omogenei e sempre più appannati dal crescente indebitamento pubblico – e dentro una nuova epoca e anni destinati ad essere notevolmente meno brillanti. Se l’ultima recessione per l’Africa subsahariana nel suo complesso risale a ormai quasi trent’anni fa (il -0,004% del 1992[1]), oggi si delinea già una contrazione del -1,6% del Pil regionale per il 2020[2]. Ma si tratta di stime inziali.
Prima ancora del lockdown degli stessi paesi africani – e dunque del freno interno alle attività economiche – sono le relazioni esterne a coinvolgere l’Africa in un secondo tipo di contagio. La forte dipendenza dalla domanda cinese, ma anche i rapporti con altri partner diventati rilevanti, come l’India, stanno prosciugando commercio e investimenti esteri in generale. Emblematico il caso del Regno Unito: lo scenario di un rilancio dei rapporti post-Brexit, delineato non più tardi di gennaio dal primo ministro Boris Johnson allo UK-Africa Investment Summit, è destinato ad incagliarsi nelle attuali secche. Da febbraio l’area subsahariana sta registrando una continua fuga di capitali[3]. A soffrire per la nuova congiuntura globale non sono solo le economie colpite direttamente dal crollo del prezzo del greggio (Nigeria, Angola, Gabon e diverse altre) o quelle alle prese con il ribasso di altre esportazioni primarie (ad esempio il rame del già precario Zambia). Le ripercussioni attraversano pressoché ogni settore, inclusi quelli di servizi come turismo e linee aeree. E il contagio economico che viene da fuori include il prevedibile calo nelle rimesse dei migranti, mediamente pari al 2,5%-3% dell’intera economia africana ma con un peso anche molto superiore per alcuni paesi. La maggiore economia del continente – la Nigeria – riceve un terzo delle rimesse complessive dei migranti subsahariani, pari al 6,1% del Pil nazionale nel 2018.
Gli stati africani non hanno le risorse finanziare né la capacità infrastrutturale o le risorse umane per intervenire e contrastare gli effetti economici e sociali della pandemia come stanno facendo i paesi europei. Le reti di protezione sociale ad opera dello stato variano tra l’inesistente e l’embrionale, con la sola parziale eccezione del Sudafrica. Né gli stimoli fiscali sono alla portata dei paesi della regione, già alle prese con debiti fortemente cresciuti. Il deteriorarsi dell’andamento economico si tradurrà in una riduzione delle entrate statali, alimentando l’ulteriore aumento del debito e dei connessi costi. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) – che ha allertato sul rischio di veder persi i progressi subsahariani registrati nell’ultimo ventennio – ha chiamato a raccolta i donatori internazionali perché sostengano i paesi dell’area nello sforzo di far fronte all’emergenza sanitaria e nel sostenerne le attività economiche, anche alleviando le loro posizioni debitorie1. Il G20 rispondeva intanto accordando ai paesi più poveri la sospensione dei pagamenti del debito bilaterale almeno fino a fine anno.
In una fase che vede gli stessi paesi occidentali piegati su se stessi, il primo ostacolo che l’Africa deve superare sul piano internazionale è proprio la competizione per ottenere attenzione e mobilitare risorse (sia quelle economiche che in termini di equipaggiamenti sanitari e farmacologici, che in Africa sono pressoché interamente di importazione). La crisi del COVID-19 – “il più grande stress test di sempre per la cooperazione allo sviluppo” – sarà anche inevitabilmente un momento di ridefinizione di strategie, ruoli ed equilibri, tanto interni all’Africa stessa – dove si cercano riferimenti in leadership nazionali come quelle del sudafricano Cyril Ramaphosa e dell’etiope Abiy Ahmed – quanto, soprattutto, all’esterno. La Cina non molla la proiezione sul continente e ha avviato un’offensiva diplomatica non solo con l’invio di esperti e di strumentazione tecnica (in buona misura targata Huawei), ma anche aprendo in modo inatteso alla discussione internazionale sul problema del debito africano. Gli Stati Uniti, ancora nel pieno del ciclone interno, sembrano accentuare la loro relativa latitanza dalla regione. Per l’Europa, la traccia di una “nuova strategia con l’Africa”, fortemente voluta da Ursula von der Leyen e pubblicata a inizio marzo, appare oggi già datata, almeno in parte superata non solo dal disinteresse africano al momento della divulgazione, ma dal mondo nuovo che nel frattempo si sta dischiudendo anche a sud del Sahara.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio ISPI-IAI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
Le opinioni espresse dall’autore/autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale