Il Piano straordinario di ripresa e resilienza deve diventare ordinario!
La FOCSIV è impegnata con il Forum Terzo Settore a seguire la costruzione del Piano di ripresa perché è un momento decisivo per lo sviluppo sostenibile del nostro paese, al quale il volontariato contribuisce da tempo. Come sappiamo, dopo anni di austerità, finalmente l’Unione europea ha deciso di investire oltre 750 miliari di euro per la ripresa dalla pandemia, sia a fondo perduto che attraverso la emissione di titoli di debito europei. E’ una decisione straordinaria, ma per avere reale effetto deve calarsi nell’ordinarietà dell’impegno politico ed amministrativo del nostro paese. Altrimenti il suo impatto sarà solo provvisorio, e tutto tornerà come prima.
La nostra società e le sue relazioni col mondo, e in particolare con i paesi impoveriti, hanno bisogno di una trasformazione profonda secondo l’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile. Il cambiamento di stili di vita e dei modelli di produzione e consumo devono diventare pratica quotidiana, ordinaria. Il Piano di ripresa deve produrre riforme e piani di attuazione che impostino una nuova quotidianità del buon vivere. Il Piano per avere effetto deve coordinarsi con i tanti piani già esistenti in Italia ma scarsamente applicati, non coordinati e a volte poco coerenti tra di loro (a tal proposito FOCSIV sta seguendo il processo per la creazione di un nuovo Piano sulla coerenza delle politiche con GCAP – Coalizione globale contro la povertà – Italia)
Vi invitiamo quindi a leggere di seguito il contributo di Mario Carmelo Cirillo che approfondisce proprio il problema del passaggio dalla straordinarietà del Piano all’ordinarietà, e di come l’incapacità pianificatoria italiana possa rappresentare un grande ostacolo.
Contributo di Mario Carmelo Cirillo, attivista FOCSIV
If you fail to plan, you are planning to fail. (Benjamin Franklin)
La finalizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è una priorità del governo, accanto alla gestione della pandemia e della connessa campagna vaccinale. Denominato anche Recovery Plan o Next Generation Plan, il piano individua le azioni da porre in essere per poter fruire dei finanziamenti del Next Generation EU, il fondo speciale approvato dall’Unione Europea a luglio 2020 con la finalità di finanziare il rilancio del vecchio continente a fronte della pandemia da COVID 19. Si tratta come sappiamo di cifre molto significative, lo stanziamento complessivo è di 750 miliardi di euro da ripartire tra i diversi Stati; di questi circa 200 miliardi sono destinati all’Italia. I tempi sono molto stretti, in quanto il PNRR deve essere sottoposto alla valutazione della Unione Europea entro il prossimo 30 aprile.
Il Next Generation UE poggia sia sulla efficace realizzazione delle azioni che vengono finanziate (bisogna fare “presto e bene”), sia sull’attuazione di riforme che diano il necessario slancio.
C’è un altro aspetto che a mio avviso merita attenzione, un aspetto che si situa in un certo senso a metà strada tra le azioni progettuali del PNRR e le grandi auspicate riforme (fisco, pubblica amministrazione, giustizia e via dicendo): il PNRR è un piano straordinario, ed è essenziale che si integri con la pianificazione ordinaria del nostro paese a livello nazionale, regionale e locale. Questo potrebbe essere una criticità, alla luce del fatto che nel nostro Paese spesso la pianificazione ordinaria manca o è bloccata. Il punto è che in Italia da decenni non si pianifica, o lo si fa poco e male, e questo espone a provvedimenti “in deroga a …” o “nelle more dell’attuazione di …”, che purtroppo sono un malcostume diffuso, tanto da rendere legittimo il sospetto che, oltre a indubbie carenze culturali e amministrative, vi sia talvolta la deliberata volontà di procrastinare per quanto possibile l’adozione di piani e programmi proprio per potersi tenere “le mani libere”. Inevitabile a tale proposito pensare alla diffusa corruzione o alle frequenti intrusioni della malavita organizzata, piaghe che affliggono l’Italia da sempre contribuendo in maniera determinante al declino del nostro paese.
Sappiamo che in Italia c’è una cronica difficoltà a spendere i fondi europei, e non è peregrino pensare che uno dei motivi sia questa carenza nell’attività di pianificazione. Capita che i progetti che si propongono siano delle “belle idee”, che però fanno fatica a inserirsi nel tessuto sociale e territoriale per cui sono pensati, e una volta realizzati – non di rado con ritardi e difficoltà anche nella rendicontazione – non forniscono quel valore aggiunto che si potrebbe ipotizzare sulla base del finanziamento in gioco. In altre parole, facciamo fatica a integrare i progetti europei con le iniziative di carattere nazionale e/o locale, e il motivo principale risiede nel fatto che non pianifichiamo, e dunque non costruiamo quadri d’insieme con visioni e obiettivi ben definiti, dentro cui sarebbe agevole collocare efficacemente anche le azioni finanziate dall’Europa.
Tra l’altro un quadro pianificatorio completo ed efficiente contribuirebbe a orientare e favorire gli investimenti privati, che devono giocare un ruolo fondamentale nella crescita del paese. Sappiamo quanto il nostro Paese sia poco attrattivo per quanto riguarda gli investimenti privati “sani” (che non siano cioè riciclaggio di danaro sporco), e i motivi principali sono un eccesso di burocrazia nonché la presenza di un tessuto malavitoso che spesso asfissia sul nascere qualsiasi iniziativa imprenditoriale “non allineata”. Per affiancare agli investimenti previsti dal PNRR investimenti privati ben più sostanziosi, indispensabili per attuare una crescita economica significativa, diventa cruciale innescare un circolo virtuoso tra questi due filoni, con una decisa azione di riforma che renda più agili ed efficienti le procedure burocratiche aumentando l’attrattività degli investimenti, nonché aggredire in maniera decisa la malavita organizzata, cose decisamente non facili da realizzare in tempi brevi. A questo bisogna aggiungere la mancanza di pianificazione o una pianificazione ingessata, che complica ulteriormente le cose.
Il dato di fatto è che una diffusa carenza della cultura e della pratica della pianificazione, talvolta non praticata od ostacolata di proposito per fini poco nobili, si traduce spesso in autentici disastri. Auspico che l’attuale governo abbia ben chiaro il fatto che in Italia non si pianifica o si pianifica male. Se si vuole che il PNRR funzioni, e più in generale l’Italia abbia qualche probabilità di fare il salto di qualità, è necessario aggredire con grande decisione questo tema; il che, diciamocelo, è cosa da far tremare le vene e i polsi, soprattutto se si pensa alle pesanti e sistematiche infiltrazioni malavitose che tengono in ostaggio amplissime aree del nostro territorio.
Nel concreto, cosa sarebbe necessario fare? Nel seguito provo a elencare alcune azioni che dovrebbero essere messe in campo, senza la pretesa di essere esaustivo.
Non v’è dubbio che un problema rilevantissimo sia il cambiamento climatico oramai in atto, che oltre a un aumento della frequenza di occorrenza di eventi meteoclimatici estremi come bombe d’acqua, onde di piena, trombe d’aria e simili, eventi ai quali ci stiamo tristemente abituando, ha già prodotto un profondo cambiamento degli schemi meteoclimatici stagionali, il che oltre a incidere sul benessere delle persone, ad esempio a causa di repentini sbalzi di temperatura o di sempre più frequenti ondate di calore, implica una progressiva anticipazione dei periodi di semina e di raccolta, l’aumentata presenza di patogeni delle piante, la modifica della latitudine e della quota delle colture e dei pascoli. Sappiamo che da una parte è necessario intraprendere senza indugi una massiccia azione di abbattimento delle emissioni di gas climalteranti con una radicale decarbonizzazione dell’economia allo scopo di contenere per quanto possibile questi mutamenti, consapevoli che affinché questo sforzo abbia successo deve essere perseguito a livello globale. Dall’altra parte, poiché il cambiamento climatico è oramai in atto, è necessario agire a livello nazionale e locale con azioni di adattamento per contenere gli impatti. Al riguardo il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), attualmente in procedura di VAS (Valutazione Ambientale Strategica), rappresenta uno degli strumenti fondamentali per affrontare in maniera organica queste criticità, ormai sotto gli occhi di tutti, con particolare focus su dissesto geologico, idrologico ed idraulico; gestione delle zone costiere; biodiversità; insediamenti urbani. Temi sui quali continuiamo ad assistere a disastri sempre più frequenti e a rincorrere emergenze su emergenze. E’ necessario adottare e rendere operativo il PNACC quanto prima.
Tra l’altro una azione fondamentale collegata al PNACC è l’aggiornamento dei regolamenti tecnici per la realizzazione delle opere pubbliche alla luce del fatto che, come già sottolineato, i cambiamenti climatici in atto stanno modificando profondamente la magnitudo e la frequenza di eventi meteorologici estremi quali onde di piena, trombe d’aria e simili sulla cui base vanno dimensionate dal punto di vista ingegneristico tali opere.
Inoltre nella progettazione e realizzazione delle opere pubbliche è necessario adottare e praticare diffusamente, laddove possibile, i metodi dell’ingegneria naturalistica, che prevede come materiali da costruzione piante verdi, parti di piante o addirittura intere biocenosi vegetali, spesso associate a materiale quali pietrame, terra, legname. La finalità principale è quella di limitare laddove possibile le costruzioni ingegneristiche tradizionali, che fanno ampio uso di cemento con conseguente consumo di suolo che viene sottratto alle sue funzioni naturali, a favore di “opere naturali” che assolvono la medesima funzione strutturale.
Parimenti va adottata rapidamente la Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile che deve fornire, accanto agli obiettivi e indicatori di carattere economico-finanziario che sono quelli con i quali siamo abituati a confrontarci, obiettivi e indicatori di carattere sociale e ambientale, quali ad esempio la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, la promozione dell’istruzione e la lotta alla disoccupazione, la protezione sociale, la promozione della salute e del benessere, la cura delle comunità locali e del patrimonio naturalistico e culturale, la decarbonizzazione dell’economia e l’introduzione di modelli di consumo sostenibili, la tutela della biodiversità, assicurare legalità e giustizia, eliminare ogni forma di discriminazione … e via dicendo.
In particolare gli obiettivi di sostenibilità a livello nazionale, che dovrebbero essere adottati nella Strategia Nazionale di cui sopra e declinati anche a livello regionale e locale, devono essere gli obiettivi con cui si confrontano sistematicamente le Valutazioni Ambientali Strategiche (VAS) relative ai piani e programmi; attualmente la mancanza di tali obiettivi rende la VAS una procedura di limitata utilità, fornendo argomenti a chi considera tali procedimenti delle inutili complicazioni burocratiche che hanno come unico effetto quello di allungare i tempi, quando invece una VAS ben fatta, oltre a verificare la sostenibilità dal punto di vista ambientale delle azioni previste nel piano, rende molto più agevoli, rapide ed efficaci le Valutazioni di Impatto Ambientale delle opere di pertinenza del piano/programma.
Passando al livello regionale e locale, si assiste spesso a situazioni in cui gli strumenti di pianificazione sono bloccati per una serie di veti incrociati. Senza trascurare i motivi “poco nobili” che possono portare a queste situazioni, è chiaro che quella che manca è una capacità adeguata di concertazione. Se il problema è questo, non c’è altra via d’uscita se non rendere più fluidi ed efficienti i procedimenti di concertazione tra i vari soggetti competenti che portano all’approvazione dei piani. Un esempio rilevante, stante la straordinaria ricchezza del patrimonio culturale e paesaggistico del nostro paese, sono i frequenti conflitti tra i soggetti proponenti il piano/programma e le autorità preposte alla tutela dei beni culturali e ambientali.
Un aspetto che dovrebbe essere dato per scontato in tema di pianificazione sia a livello nazionale che regionale che locale, ma che spesso non lo è, consiste nel fatto che tutti i piani devono declinare con chiarezza gli obiettivi, nonché gli indicatori che permettono di misurare il raggiungimento degli obiettivi nei tempi stabiliti, e devono prevedere meccanismi trasparenti di monitoraggio e di aggiornamento del piano. A questo proposito nel nostro paese c’è un evidente squilibrio tra azioni e strumenti autorizzatori ex ante, spesso macchinosi e ipertrofici, e azioni e strumenti di monitoraggio e verifica ex post, spesso assenti o carenti. Poiché un soggetto fondamentale per le verifiche e il monitoraggio sul territorio per quanto riguarda gli aspetti ambientali è il Sistema Nazionale a rete per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) composto da ISPRA e ARPA/APPA, istituito con la legge 132 del 2016, è necessario finalizzare con urgenza il completamente dei decreti attuativi previsti da questa legge; fra questi essenziale è il DPR che dovrà istituire i LEPTA (Livelli Essenziali delle Prestazioni Tecniche Ambientali, analoghi ai Livelli Essenziali di Assistenza – LEA – della Sanità), per garantire un livello omogeneo di protezione ambientale su tutto il territorio nazionale, destinando a tale fine adeguati finanziamenti.
A livello procedurale c’è da considerare un altro aspetto all’origine delle carenze della pianificazione nel nostro paese, ovvero l’arretratezza di un approccio amministrativo che separa meccanicamente la fase dell’analisi, della pianificazione e programmazione degli interventi da quella dell’attuazione; se questo approccio poteva più o meno andare bene mezzo secolo fa, non funziona in contesti quali quelli attuali, fortemente dinamici e in continua evoluzione, che risentono a loro volta delle condizioni al contorno che mutano anch’essi con rapidità. A titolo di esempio si pensi alla qualità dell’aria: la realizzazione di un piano di risanamento richiede un censimento di tutte le fonti di emissione (trasporti, usi civili, industria, agricoltura), la determinazione – tramite misure e stime più o meno sofisticate – delle quantità di inquinanti emesse da ciascuna fonte, l’utilizzo di complessi modelli matematici che analizzano come queste emissioni si disperdono e si trasformano in atmosfera al fine di valutare il peso di ciascuna fonte all’inquinamento dell’aria, e infine l’indicazione su quali fonti intervenire, e in che modo, per ridurre le emissioni al fine di risanare la qualità dell’aria. Anche se esposta in maniera estremamente semplificata, si intuisce l’enorme quantità di informazioni e di competenze scientifiche e tecniche necessarie per predisporre un piano di risanamento della qualità dell’aria. Di fatto la sua predisposizione– e la stessa cosa vale per le altre problematiche ambientali come il suolo, le acque, i rifiuti eccetera – è una procedura complessa che richiede l’intervento di una molteplicità di competenze tecnico-scientifiche. Dopodiché il piano deve essere preventivamente discusso e approvato dagli organi amministrativi competenti che, nel caso della qualità dell’aria, attualmente sono le Regioni, eventualmente a valle di una concertazione con i livelli amministrativi locali (Città metropolitane e/o Province, Comuni), e successivamente deve essere portato ad attuazione. Il paradosso, che si verifica costantemente nelle realtà amministrative del nostro Paese, è che una volta che un piano è approvato, e deve dunque essere attuato, è obsoleto: nel frattempo le condizioni al contorno sono mutate, magari sono avvenute importanti delocalizzazioni industriali o modifiche delle infrastrutture stradali per cui è tutto – o quasi – da rifare. Questa cosa è nota agli addetti ai lavori, in particolare agli esperti in pianificazione, tanto che da decenni si parla di approcci che dinamicamente e con continuità aggiornano il piano sulla base di un monitoraggio attento e di una valutazione da una parte dei risultati già conseguiti, e dall’altra delle modifiche da apportare al piano per ritarare le azioni al fine di perseguire efficacemente gli obiettivi: di fatto un piano-processo in cui fondamentale è la messa a punto di meccanismi di monitoraggio del piano e la conseguente revisione continua dello stesso, tramite un meccanismo virtuoso di feedback. Tutto questo si scontra con un contesto amministrativo e istituzionale che invece lavora per “blocchi sequenziali” con l’aggravante di tempi burocratici decisamente non rapidi: prima si predispone il piano (fase tecnica), che poi viene discusso e approvato (fase politico-istituzionale) e infine attuato (fase realizzativa). Il risultato è che oggi si realizzano interventi pensati anche quindici-venti anni fa, che nelle attuali condizioni hanno perso molto del loro significato originario, ma che si attuano comunque sennò “si perdono i finanziamenti”.
Non v’è dubbio che su tutto questo c’è tantissimo lavoro da fare.
Ho già accennato al fatto che spesso la mancanza di pianificazione non è un accidente, ma è – paradossalmente – accuratamente pianificata; il motivo risiede nel fatto che la mancata adozione degli strumenti pianificatori previsti consente l’adozione di provvedimenti “in deroga a …” o “nelle more dell’attuazione di …”, e questo fa il gioco di chi persegue fini poco puliti. Prime fra tutti, le organizzazioni malavitose, che controllano amplissime aree di territorio, soprattutto al Sud, se non addirittura intere regioni[1].
Quello della malavita organizzata è un problema di portata enorme, e tra l’altro la riduzione del divario Nord-Sud, cui ha fatto riferimento anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi, passa obbligatoriamente per una azione massiccia e decisa di contrasto. Ma non basta. E’ necessario un profondo cambiamento di cultura e mentalità. Come ha affermato Giancarlo Maria Bregantini, Vescovo della diocesi di Gerace-Locri dal 1994 al 2007 e noto per la sua dura opposizione alla ‘ndrangheta, bisogna distinguere tra mafia – l’aspetto militare, operativo, violento del problema (i mafiosi rimangono comunque una piccola minoranza rispetto al resto della popolazione civile) – e mafiosità, cioè la mentalità che per forza di cose si diffonde anche fra la gente onesta in un contesto condizionato dalla malavita organizzata. Dunque, ancora una volta, un atteggiamento mentale diffuso che è agli antipodi di una cultura della partecipazione, della trasparenza, della responsabilità.
Purtroppo i tempi per questo cambiamento non possono essere brevi, e dunque non sono compatibili con la tempistica del PNRR. E’ comunque necessario avviare il processo lavorando sia sul fronte della pubblica amministrazione che sul dialogo pubblico-privato che sulla comunicazione e dialogo con i cittadini e i diversi portatori di interesse.
[1] Si veda a questo proposito la puntata di Presa diretta di Riccardo Iacona “Processo alla ‘ndrangheta” su Rai 3 di lunedì 15 marzo 2021, il tema è l’operazione condotta da Nicola Gratteri, Procuratore capo della Repubblica a Catanzaro, contro la ‘ndrangheta che da decenni tiene completamente in ostaggio la Calabria sia nel pubblico che nel privato, la si può rivedere su Raiplay.