Possiamo davvero raccontare tutto?

Fonte immagine https://auci.org/
Quando mi hanno chiesto di descrivere questo primo mese in un piccolo villaggio del Sud‑Ovest del Madagascar, ho ironizzato, ci ho scherzato su, dicendo: “Meglio di no, possiamo davvero raccontare tutto?”. Subito dopo una risata…
L’ironia ti salva in certi contesti: contesti in cui non ti sembra di vivere la realtà, in cui ti senti in una bolla, catapultato in un’altra dimensione, e ti pare difficile credere che, solo un mese fa, vivevi una vita completamente diversa.
È strano descrivere come mi sento – come ci sentiamo io, Gabriele e Luisa – dopo un mese. C’è chi si sente ansioso, chi arrabbiato, chi ride… c’è chi dice di non sentire “nulla”. Ma noi lavoriamo con le persone e siamo persone: affermare di non provare niente sarebbe ipocrita, falso, disumano.
Qui lavoriamo nell’unico ospedale nel raggio di 300 km: circa 100–150 ingressi al giorno, una ventina di posti letto, una sola sala operatoria, un ambulatorio medicazioni, uno per pazienti cronici. Un’équipe mista di infermieri, medici, fisioterapisti e dentisti cerca ogni giorno di fare i conti con strumenti e risorse che finiranno presto, con esami del sangue ridotti al minimo, con la confusione logistica e con difficoltà linguistiche e culturali. Eppure ci impegniamo, ci dedichiamo, proviamo a dare sempre il meglio. È questo che mi fa pensare di essere nel posto giusto.


Ieri, però, mi sono sentito impotente. Guardavo le condizioni dei pazienti: malnutriti, sporchi, assetati. Distribuivamo bottiglie d’acqua arricchite con multivitaminici… e io chiedevo loro qualcosa che per me è scontato: bere. Mi ero impegnato per preparare quella soluzione “magica”, eppure capivo che loro non erano abituati né a bere né a mangiare.
Una delle cose che mi ha colpito più duramente è stato accorgermi che una giovane mamma, appena 30 kg di peso, ricoverata per sospetta schistosomiasi, cedeva le bottiglie che preparavamo ai suoi figli, cercando di nasconderlo. Noi ci arrabbiavamo, non capivamo perché i nostri sforzi, il nostro impegno, venissero vanificati da quel gesto. Perché il nostro lavoro, fatto di giri visita, cateteri, CVP, terapie antibiotiche, sembrasse azzerato in un attimo.
Mi sono sentito inutile, perso, frastornato da un’immensa sensazione di vuoto che mi pervadeva. Forse non lo capirò mai, forse non saprò mai cosa significa non essere abituati a ricevere attenzioni, a essere curati. D’altronde, io resto sempre un Vaza (o Vazaha, che in malgascio indica straniero/bianco N.d.R.).
Daniele Costante, Casco Bianco con AUCI ad Andavadoaka, Madagascar.