Sta vincendo il “diritto all’esclusione”

Negli ultimi mesi le politiche europee cercano di ridurre o arrestare l’entrata dei migranti nell’Unione, perché le nostre società sono sempre più ostili verso le migrazioni, e i nostri politici e diversi media cavalcano, fomentano e strumentalizzano la paura per fini elettorali e di potere. Pochi resistono a questa deriva. Viene esercitato in modo crescente il “diritto all’esclusione” contro la mobilità dei migranti nel nome, nel peggiore dei casi, di una minaccia culturale e religiosa, oppure della nostra incapacità a offrire un’accoglienza decente. Questo diritto all’esclusione, secondo una certa interpretazione, emana dal diritto a rimanere.
Sì, esiste un diritto all’esclusione. Fino a che vi saranno stati nazione diversi e divisi, comunità locali differenti per storia, cultura e anche religione e chiuse in sé stesse. Fino a che ogni stato sarà fondato su un contratto sociale e su una costituzione frutto di un processo democratico legato ai cittadini residenti su un determinato territorio, e a cui si deve rispondere offrendo servizi sociali adeguati in modo prioritario rispetto agli stranieri. Esisterà il diritto all’esclusione.
In un recente numero di Aggiornamenti Sociali (n.08-09 di Agosto Settembre 2015) si riflette sul diritto di migrare versus diritto di escludere. E si fa riferimento ad alcuni intellettuali liberali, come Walzer e Wellman, per cui l’esclusione è giustificata dal diritto delle comunità all’autodeterminazione. In un mondo diviso tra popoli che si autodeterminano, ogni popolo ha il diritto di decidere se e quanto aprire le sue porte di casa agli stranieri.
Il diritto a rimanere fa appello all’esigenza di ogni uomo di poter restare con la sua famiglia, nella sua comunità, senza essere costretto a migrare. Questo diritto si lega all’esistenza di una comunità in un territorio, e quindi alla sua autodeterminazione, a cui può fare da corollario la possibile scelta di escludere altri dall’entrare.
E’ bene allora affermare che, rispetto a queste tesi, così come il diritto a rimanere sostenuto dall’iniziativa della CEI non è da intendersi in modo contrario al diritto alla mobilità (vedasi articolo precedente), così il diritto a rimanere non deve condurre al diritto all’esclusione.
Infatti, gli stati nazionali e le comunità non sono delle entità perfettamente autonome, ma sono in continua relazione tra di loro, per cui esiste un comune obbligo morale, sancito da normative internazionali, alla protezione umanitaria e da governi dittatoriali che perseguitano i propri cittadini. Non si può esercitare il diritto all’esclusione nei confronti di chi fugge da guerre e da disastri che mettono in pericolo la vita delle persone. E’ un dovere di solidarietà internazionale.
Purtroppo l’Unione europea (UE) sta venendo meno a questo dovere perché sta chiedendo e aiutando i paesi vicini ai conflitti, e quelli di transito, a far rimanere sui loro territori i profughi. Quando questi territori, dalla Giordania al Libano, alla Turchia (il paese oggi con il maggior numero di profughi in assoluto a livello mondiale: oltre 2,5 milioni di persone) sono già oltremodo “sovraccarichi”. L’UE cerca di esternalizzare i controlli e la gestione delle frontiere, ed è disposta a pagare pur di fermare i migranti: da alcuni mesi si sono promessi 3 miliardi di euro alla Turchia e altre centinaia di milioni di euro ai paesi dei Balcani occidentali e del Mediterraneo meridionale. E nel recente vertice UE del 7 e 8 Marzo la Turchia ha rilanciato chiedendo 6 miliardi di euro.
In Europa solo la Germania ha aperto in modo veramente importante le porte ai profughi, oltre 1 milione di persone nel 2015, sospendendo il trattato di Dublino. Ma ora ci sta ripensando e sta chiedendo di ridurre i flussi con un maggiore controllo lungo le frontiere esterne dell’UE. Gli altri paesi europei sono divisi tra chi si rifiuta in toto di ospitare i richiedenti asilo (in particolare si tratta di alcuni Paesi dell’Europa orientale membri dell’UE come la Slovacchia, l’Ungheria, la repubblica Ceca e la Polonia, conosciuti come il gruppo di Visegrad), e chi apre la porta ma riducendo il numero di accessi per non mettere in crisi il proprio sistema di asilo (dalla Svezia alla Danimarca), e imponendo addirittura quote giornaliere come l’Austria, con un effetto domino dalla Croazia fino alla Macedonia, lungo quella che viene chiamata rotta balcanica.
Tutto ciò si traduce nella chiusura delle frontiere nazionali, e nella creazione di sacche di profughi nei paesi di transito e soprattutto ora in Grecia, con nuove crisi umanitarie. Il risultato è che l’accoglienza dei migranti cresce sulle spalle di quei paesi che hanno meno la capacità di farvi fronte, e dove sono maggiori i pericoli di instabilità e tutela dei diritti umani, mentre i paesi europei, più ricchi ed organizzati, se ne lavano le mani.
Secondo una visione bilanciata, un sistema di asilo condiviso tra diversi paesi dovrebbe corrispondere alla differenti capacità di accoglienza. Questo criterio risulterebbe prioritario rispetto alla pura volontà dei migranti di decidere il posto nel quale essere accolti, salvo il loro diritto al ricongiungimento familiare. Per questo la Commissione europea ha cercato di misurare in modo oggettivo questa capacità, definendo le quote di ricollocamento per i diversi paesi membri dell’Unione, secondo parametri che vanno dalla ricchezza di un paese al grado di disoccupazione.
Se si adottasse questo stesso criterio anche fuori dell’UE, in paesi come il Libano o la Turchia, si dovrebbero subito ricollocare centinaia di migliaia di migranti da questi paesi verso quelli europei. Quel che manca infatti non è solo la solidarietà tra i paesi membri europei nel condividere i costi dell’asilo ma anche la solidarietà con e tra i paesi di transito e di origine dei flussi. Manca cioè una vera cooperazione multilaterale che riconosca le diverse capacità e le diverse responsabilità anche oltre l’UE. Di conseguenza tutte le politiche finora perseguite risultano frammentate, emergenziali e inutili di fronte alle giornaliere stragi di bambini, donne e uomini che cercano di attraversare il Mediterraneo e per cui le operazioni di soccorso e salvataggio risultano ancora insufficienti.
L’Europa sta implodendo e si divide. Cerca di scaricare i problemi sugli altri paesi, che sono già al collasso. Si producono così sempre più scarti umani e insicurezza. L’unica soluzione sarebbe una grande politica di solidarietà europea, ma purtroppo le condizioni politiche non ci sono. Esiste comunque la possibilità di una cooperazione rafforzata tra paesi europei più solidali. Cosa che già sta avvenendo a livello informale con una coalizione del volonterosi guidata dalla Germania, ma il cui orientamento è di una solidarietà condizionata al fermare i flussi.
Oltre alla necessaria pressione politica per una vera cooperazione solidale. E’ soprattutto a livello culturale e sociale che occorre creare le condizioni per ritrovare le radici di un diritto a rimanere e alla mobilità che vada oltre quello all’esclusione, oltre le rigide chiusure di stati nazionali e di comunità locali auto-centrate, egoiste ed asfittiche. Immaginando quella fratellanza universale indicata da Papa Francesco e quell’ideale di comunità e cittadinanza cosmopolita che sola garantisce il rispetto della dignità umana al di là di qualsiasi confine, nello spazio aperto dell’umanità.
Andrea Stocchiero, Policy Officer FOCSIV