Una nuova casa lontano da casa

Fonte immagine https://auci.org/
Eravamo partite con il volo interno “Dar es Salaam–Dodoma” con alcune ore di ritardo: ci avevano già fatto assaporare la filosofia del “pole-pole” (“lentamente”) che avrebbe scandito la quotidianità dei giorni a venire in questa terra nuova. Ormai il sole era tramontato e ciò che mi colpì di più fu il buio visto dal finestrino del mio sedile: chilometri e chilometri di apparente nulla. Dopo un’ora di viaggio, un insieme disomogeneo e travolgente di puntini bianchi illuminava il paesaggio. Finalmente, Dodoma!
La prima impressione che ho avuto della città è stato il fil rouge che mi ha accompagnata poi nella sua scoperta: disordine, confusione, caos in ogni suo angolo. Infatti, la realtà qui si è presentata come un pugno in piena faccia e mi ha tolto qualsiasi commento per qualche giorno: “Come posso descriverla a chi non l’ha vissuta?” mi ripetevo. Ma forse il fine era proprio quello, viverla attraverso tutti e cinque i sensi senza troppe spiegazioni.
Dopo un iniziale turbamento, carico di pregiudizi culturali, oggi vedo la realtà con occhi diversi. Qui la gente per strada ti saluta, stringe le mani e non rispetta quegli “spazi vitali” che una ragazza proveniente dal nord Italia ritiene sacri. Però, a forza di essere fermata per strada, a volte fotografata, altre accolta con un grande sorriso e un “Karibuni Tanzanìa” (benvenuta in Tanzania) o con qualche ballo tradizionale, anche il muro più alto crolla e ci si sente stranieri in un paese che però ti dà il benvenuto con un abbraccio.
Il St. Gemma Hospital è una piccola realtà distrettuale che si occupa di un numero limitato di pazienti: vi sono ambulatori di medicina generale, uffici amministrativi, un laboratorio analisi, una farmacia, la radiologia e reparti (“ward”) composti da singole stanze di degenza con pochi posti letto. Tra questi sono presenti: pediatria, chirurgia femminile, chirurgia maschile e il reparto di maternità, quello che ospita il maggior numero di pazienti in assoluto.
Appena arrivata all’ospedale, ho subito percepito un’aria di gioia e di famiglia: tutti si conoscono e l’ultimo arrivato viene sempre accolto con grande entusiasmo. Nonostante ciò, non è stato facile abituarsi alle modalità di lavoro, all’assenza di una chiara divisione dei compiti, al “tutti possono fare tutto”, ai tempi dilatati anche per le procedure più veloci, alle poche risorse (talvolta nemmeno funzionanti), al disordine generale.



L’iniziale frustrazione per non riuscire a compiere al meglio il proprio servizio, garantendo efficacia ed efficienza al paziente (proprio da mindset occidentale), fortunatamente è andata via via attenuandosi, lasciando spazio a un senso di armonia e a una ricerca di comunicazione costruttiva con i colleghi. Uno scambio culturale di esperienze, conoscenze, protocolli, procedure e una grande apertura e curiosità da entrambe le parti. Penso che questo sia allo stesso tempo un punto di partenza forte, ma anche il fine ultimo di tutto. Ci sono giorni che vanno a ritmo di “Amefanya Mungu” (canzone gospel del cantante keniota Paul Clement che parla della grazia e dell’accettazione divina), mentre altri sembrano solo faticosi e interminabili, però il percorso verso una nuova cultura non può di certo essere tutto lineare. Ad ogni modo, non siamo certo qui per arrenderci!
Ciò che più mi ha colpito della Maternità al St. Gemma, però, sono proprio le donne: esempi di forza e resilienza silenziosa. In queste settimane ho incrociato tantissimi sguardi e da ognuno ho percepito storie diverse, che terminano sempre con un sorriso accompagnato da un “Asante” (Grazie). Qui, però, l’unica che dovrebbe dire grazie sono io a loro, per la solidarietà femminile da cui sono circondata ogni giorno: vicine di letto che si sostengono a vicenda con l’allattamento, sorelle di donne che assistono altre donne durante le contrazioni, madri che si presentano alla porta del reparto con il cibo pronto per le figlie e il “chai” (tè tradizionale) che le accompagnerà durante il travaglio e infine un gruppo di donne al di fuori della maternità ad attendere in silenzio devoto una vita nuova che arriva.

Un altro esempio di femminile che mi accompagna in questa avventura sono le suore che ci hanno accolto nella loro casa: tutte donne impegnate in servizi per la congregazione o per l’ospedale, che però diventano anche “mamme” se ti senti poco bene o si accorgono che non stai mangiando molto. Donne che non perdono l’occasione di gioire della quotidianità a ritmo di tamburi, con danze e canti, facendoti sentire parte di una grande famiglia tutta al femminile.
Il tempo qui scorre calmo, tranquillo, eppure un mese sembra già volato via. Spero di continuare a stupirmi della fortuna che ho di vivere tutto questo.
Dal mio posto, semplice e felice, per ora è tutto.
Ilaria Schievano, Casco Bianco con AUCI a Dodoma, Tanzania