Un’esperienza che insegna la vita
Sono arrivata a Quito in piena estate, lasciandomi il caldo soffocante del sud Italia alle spalle per incontrare il fresco delle ande, ma anche un sole ardente e piu diretto a quello a cui ero abituata. Io che ho sempre vissuto sulla costa, mi ritrovo circondata da maestose ed eleganti montagne a quasi 3000 metri di altura, nella la seconda capitale piu alta del mondo. Non e’ stato facile per il mio corpo abituarsi a questo cambio, ed ecco che a pochi giorni dalla partenza gia imparo la prima lezione di questo anno importante: acostumbrase e’ un processo che richiede tempo e pazienza. E per una persona impaziente come me, non e’ cosa da poco. Anche se la mia mente era attiva, curiosa, frettolosa di lanciarsi subito in questo nuovo mondo che mi ritrovavo davanti, il corpo chiedeva di andare piano; prima di ogni altra cosa bisognava letteralmente imparare a respirare a 3000 metri, dove la percentuale di ossigeno è molto più bassa.
Durante questi primi due mesi di servizio presso la sede di HIAS, dove lavoriamo con persone in situazione di movilidad humana, ho avuto la fortuna di imparare tantissime cose, e non solo in tema di migrazione sudamericana, ma anche e soprattutto sulla vita.
La popolazione migrante con cui lavoriamo è composta principalmente da Colombiani e Venezuelani (ma non solo) che – nonostante le differenze e le specificità di questi due grandi flussi migratori verso l’Ecuador – sono accomunati da una ricerca di sicurezza che però, per la maggior parte dei casi, espone chi emigra a nuovi tipi di insicurezza. L’insicurezza del cammino, che solo chi ha attraversato la selva a piedi per arrivare dall’altra parte della frontiera conosce. E una volta arrivati, l’insicurezza dettata da xenofobia, discriminazione, razzismo, e spesso da una situazione di irregolarità da cui è difficile uscire, soprattutto per i Venezuelani, a causa dell’inasprimento dei requisiti di ingresso.
Dal 2015 infatti i Venezuelani hanno iniziato a emigrare in massa verso i paesi vicini per la drammatica crisi politica, sociale ed economica del paese. E nonostante l’oppressione economica sia lacerante e violenta tanto quanto altri tipi di violenza e di persecuzione, per la poplazione venezuelana e’ quasi impossibile ottenere un riconoscimento giuridico di rifugiato, perche’ considerati semplicemente migranti economici.
Con l’aumentare della migrazione si e’ rafforzato anche il razzismo nel discorso pubblico, che addita alla presenza dei cittadini stranieri la causa dei fenomeni di delinquenza e di violenza diffusi nel Paese. Come spesso accade in tanti altri luoghi del mondo, comprese le nostre latitudini, l’immigrato diventa il capro espiatorio. E così le politiche di contenimento da parte del Governo sono appoggiate e legittimate dai cittadini.
Nonostante il fatto che tutti i giorni parlo con persone che sono scappate da torture, estorsioni, minacce di morte (come nel caso dei Colombiani) o dalla fame, dall’inflazione e dall’impossibilita di poter soddisfare necessità di base (come nel caso dei Venezuelani), non ho mai considerato nessuno una vittima da dover aiutare, nonostante la brutalità delle situazioni in cui si sono trovati, ma piuttosto come dei sopravvissuti da dover sostenere.
Uomini, donne, bambini coraggiosi, che al dispositivo di controllo e di morte che è la frontiera, rispondono con la vita, con il coraggio. Instancabili camminano, muovendo un passo dopo l’altro verso la ricerca di una vita migliore, per se stessi e per i proprio figli. Tutti i giorni si svegliano e silenziosamente costruiscono con le proprie mani un nuovo cammino, una vita nuova, con una grande speranza nel cuore.
Ogni volto, ogni persona, ogni storia conosciuta qui mi ha lasciato dentro qualcosa di grande. Penso a German, un ragazzo colombiano conosciuto durante uno dei nostri Taller de cocina en vivo (corso di cucina). Mentre cucinavamo le arepas (tipo di piccole piadine di farina di mail e farina e di grano farcite), si mise a cantare una famosa salsa colombiana: “Pronto llegara’ el dia de mi surte, se que antes de mi murte seguro que mi suerte cambiara’ “ (presto arriverà il giorno della mia fortuna, so che prima della mia morte il mio destino cambierà). Io gli dissi che era una delle mie salse preferite. E lui mi rispose che ogni mattina la canta, giurando a se stesso che a forza di affrontare di petto la vita, sarebbe riuscito a cambiare il proprio destino. Da quel giorno la ascolto tutti i giorni anche io, con il cuore a fianco di ogni migrante del mondo. Perche’ da chi si mette in cammino attraversando selve, montagne, mari e confini per andare a prendersi una vita migliore abbiamo solo tanto da imparare.
Delia Cerlino, Casco Bianco con ENGIM a Quito, Ecuador