Pole-pole: imparare i ritmi della Tanzania

Se penso che siano già passate quattro settimane dal mio arrivo in Tanzania, mi sembra di sognare. Il tempo prima della partenza mi era sembrato infinito, come se non scorresse mai, mentre una volta arrivata qui è volato. Quando io e Flaminia siamo arrivate a Dodoma, due suore ci aspettavano in aeroporto a braccia aperte e con grandi sorrisi; ci hanno accompagnate a casa, dove altre sorelle e alcune allieve ci attendevano con tamburi, canti e danze tradizionali. È stata un’accoglienza davvero calorosa.
Fin da subito abbiamo iniziato a conoscere la struttura in cui ci troviamo e le realtà che la circondano. Siamo state accolte dai sorrisi dei bambini, che ci guardavano con un misto di stupore e timidezza, ma anche con tanta voglia di giocare; dalle famiglie del villaggio vicino, che ci hanno aperto le porte di casa per conoscerci; dalle grida delle persone che ci chiamano mzungu, che significa bianco/straniero.
I mercati sono luoghi di caos totale: un’esplosione di gente, musica, urla, schiamazzi, clacson, colori, sorrisi e sguardi. Qui siamo noi quelle diverse, e per questo tutti hanno gli occhi puntati su di te! Le persone ti fissano per stupore? Disprezzo? Invidia? Curiosità? Non lo so, ma ovunque vai ti senti addosso mille occhi, e spesso c’è chi ti fotografa. Appena notano degli occidentali inevitabilmente pensano alla ricchezza e così iniziano a chiamarti (a volte in inglese, più spesso in swahili) per proporti il matrimonio. Per fortuna eravamo sempre accompagnate dalle sisters, che spiegavano che siamo qui per diventare suore. Ci avevano già avvisate di queste dinamiche un po’ scomode, che capitano inevitabilmente a tutti i mzungu (parola swahili usata per indicare le persone bianche in Tanzania), uomini e donne.

Dalla seconda settimana abbiamo iniziato a fare servizio attivamente al Dispensario di Veyula, un piccolo ambulatorio che accoglie la popolazione di una zona vicina al centro di Dodoma (circa 4000 persone). La struttura è nuova e ben organizzata, con diverse stanze dedicate alle varie attività. Qui non esiste il concetto di appuntamento: i pazienti arrivano la mattina e si mettono in fila per essere visitati dalla dottoressa, che decide poi il da farsi — analisi di laboratorio, prescrizione di terapie, somministrazione endovenosa o intramuscolare, medicazioni (alcuni vengono regolarmente per fasciature o trattamenti).
Un’altra area del dispensario è dedicata alle mamme e ai bambini: educazione e screening per le donne in gravidanza, con ecografie di controllo due o quattro volte al mese; monitoraggio mensile della crescita dei bambini, con misurazione di peso e altezza, e vaccinazioni due volte a settimana.
Qui il ritmo è sempre pole-pole (“piano piano”): le persone aspettano pazientemente il proprio turno e noi svolgiamo il nostro servizio senza stress e senza fretta, seguendo i tempi giusti. Avremmo molto da imparare da questo. La gente è aperta, si fida di te e della tua professionalità anche se non ti conosce e tu sai dire solo poche parole in swahili: questa è una cosa davvero bella, che ti fa sentire accolta nella comunità.
È ancora difficile spiegare come mi sento. Ci si sente diversi, quasi spettatori di una realtà che non si comprende fino in fondo, come se fossimo di passaggio. Ci vuole tempo: tempo per farsi conoscere e conoscere la cultura del posto, tempo per ascoltare e ascoltarsi, tempo per capirsi.
Cristina Babboni, Casco Bianco a Veyula, Tanzania con AUCI