L’economia della biodiversità e la politica della scialuppa armata

di Mario Carmelo Cirillo, attivista FOCSIV
“Nonostante Darwin, non siamo, nei nostri cuori, parte del processo naturale. Siamo superiori alla natura, sprezzanti nei suoi confronti, disposti a usarla per ogni nostro minimo capriccio.”
(Lynn White Jr[1])
Questa affermazione, scritta più di mezzo secolo fa, coglie il vero nodo che a tutt’oggi attende di essere sciolto. Dal “se” e dal “come” questo nodo verrà sciolto dipende il futuro dell’umanità.
Sul punto, ecco come viene declinata la situazione in “The Economics of Biodiversity. The Dasgupta Review”, un trattato di oltre 600 pagine pubblicato a febbraio 2021, curato da Sir Partha Dasgupta, Professore emerito di Economia all’Università di Cambridge, commissionato dal governo britannico e scaricabile dal link www.gov.uk/official-documents:
“C’è un punto più profondo e più generale che sta dietro l’idea che, poiché non esiste un limite evidente all’ingegnosità umana, il progresso tecnologico e i miglioramenti delle istituzioni possono consentire alla produzione globale di beni e servizi finali di crescere indefinitamente. Questo punto è immaginare l’impresa umana come esterna alla Natura; è vedere l’umanità immergersi nella biosfera per i suoi beni e servizi, trasformare ciò che viene prelevato per la produzione e il consumo, e depositarvi i residui come rifiuti. Questo punto di vista permette di affermare che a tempo debito l’ingegnosità umana può permetterci di aumentare la produzione globale indefinitamente senza fare altro che richieste straordinariamente piccole alla biosfera. Non importa che una crescita indefinita richiederà continui investimenti in ricerca e sviluppo e attrezzature, la speranza è che questi ulteriori investimenti richiederanno input incredibilmente piccoli dalla Natura.
Coltivare questa speranza oggi è più che paradossale. Negli ultimi 70 anni, il PIL globale è aumentato in termini reali di quasi 15 volte, mentre la nostra domanda globale di beni e servizi della biosfera – la nostra impronta ecologica – supera di gran lunga la capacità della biosfera di fornire i suoi beni e servizi su una base sostenibile. Ecco perché un gruppo di scienziati della Terra ha identificato la metà del XX secolo come il punto in cui siamo entrati nell’Antropocene.” (pag. 46-47)
Che noi si sia nell’Antropocene, l’era in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, è illustrato efficacemente dal fatto che attualmente noi esseri umani, insieme al bestiame che alleviamo per il cibo, siamo il 96% della massa di tutti i mammiferi del pianeta; solo il 4% è tutto il resto: dagli elefanti ai tassi, dagli alci alle scimmie. E il 70% di tutti gli uccelli vivi in questo momento sono pollame, allevati per lo più per essere mangiati da noi.
“L’Economia della Biodiversità prende lo spunto dalle conoscenze sviluppate nelle scienze ambientali per fondarsi sul fatto che siamo radicati nella natura. Non saremo in grado di prescindere dal Sistema Terra, anche se proviamo a investire continuamente per una crescita economica indefinita. Questa distinzione dal sapore metafisico tra l’essere “esterno” alla biosfera e l’essere “incorporato” al suo interno ha un impatto potente. Il punto di vista adottato in questo lavoro è che la finitezza della Natura pone dei limiti su quanto si può immaginare che il PIL cresca.” (pag. 47)
Di fatto dopo più di mezzo secolo dall’affermazione dello storico Lynn White Jr. citata in apertura, con riferimento al dilemma se siamo esterni alla natura o se ne facciamo parte a tutti gli effetti, noi ci posizioniamo decisamente sulla prima opzione, quanto meno sulla base dei nostri comportamenti concreti, anche se spesso le nostre affermazioni di principio fanno l’occhiolino alla seconda. Ugualmente il nostro sistema economico, sociale e politico è figlio della prima visione, anche se – soprattutto da qualche anno – si fa tanta retorica sull’economia verde. Lo stesso Lynn White Jr. nell’articolo del 1967 argomenta i motivi per cui la visione dell’uomo “esterno” alla natura è così profondamente radicata. Egli sostiene che l’atteggiamento verso l’ambiente è intimamente condizionato dalle credenze sulla nostra essenza e sul nostro destino, in una parola dal nostro credo religioso, e che la vittoria del cristianesimo sul paganesimo è stata la più grande rivoluzione, in termini di visione, nella storia della nostra cultura. Le nostre azioni quotidiane sono dominate da una fede implicita nel progresso perpetuo che era sconosciuta all’antichità greco-romana o all’Oriente. È una visione radicata nella teleologia giudeo-cristiana. Il fatto che anche il pensiero marxiano la condivida semplicemente illustra che il marxismo, come l’Islam, è un’eresia giudeo-cristiana.
In definitiva secondo Lynn White Jr. ancora oggi continuiamo a vivere in gran parte in un contesto di assiomi cristiani, e nella sua forma occidentale il cristianesimo è la religione più antropocentrica che il mondo abbia conosciuto. Secondo questa visione l’uomo condivide, in larga misura, la trascendenza dalla natura che è propria di Dio, ed è volontà di Dio che l’uomo sfrutti la natura per i propri fini, come viene affermato nel primo libro della Bibbia, la Genesi: “E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra».” (Genesi, 1, 26-28)
Sradicare questa visione plurimillenaria, e modificare lo strumentario economico e finanziario figlio di questa visione, non è cosa semplice, nonostante da anni assistiamo a un sensibile incremento di iniziative che propagandano visioni alternative. Tra queste di enorme rilievo è l’enciclica “Laudato si’” del 2015 di Papa Francesco, in cui si fa una serrata critica nei confronti del modello economico, scientifico e tecnologico dominante (“tecnocratico”, per usare la medesima espressione del Papa), fatto ancora più audace se si considera che l’economia e la scienza moderna sono profondamente innestate nel pensiero cristiano che ha le sue origini nell’occidente medievale. Questo rende se possibile la Laudato si’, e tutte le successive iniziative di Papa Francesco, degli atti ancor più significativi e sottolinea la profonda convinzione, da parte di questo Pontefice, della ineludibile necessità di un cambiamento radicale a livello planetario. Papa Bergoglio sostiene che questo cambiamento radicale passa per un profondo riorientamento religioso e spirituale, per una “conversione ecologica” per usare la sua espressione.
Tra le iniziative più recenti del Papa merita di essere menzionata “L’economia di Francesco” (Economy of Francesco, EoF – https://francescoeconomy.org/) che ha avuto inizio con l’incontro online “The Economy of Francesco – I giovani, un patto, il futuro – Assisi 2020” dal 19 al 21 novembre 2020, e che prevede quest’anno summer school e altre iniziative; tra l’altro viene coinvolto, non a caso, anche Partha Dasgupta. È chiara la valenza strategica di questa iniziativa: se si vuole imprimere un cambiamento radicale all’andazzo attuale un focus ineludibile sono i giovani, la cui sensibilità verso l’ambiente sta aumentando – basti pensare al fenomeno Greta Thunberg – insieme alla consapevolezza che l’attuale generazione di adulti e di vecchi li sta fregando.
C’è da porsi una domanda: quanto questo crescente fiorire di iniziative sulla salvaguardia dell’ambiente, alcune portate avanti da leader di valenza planetaria come Papa Francesco, stanno cambiando il corso delle cose? La mia impressione è che, nonostante un potente innesto dei temi ambientali nelle narrazioni della politica e del business, e nella comunicazione in generale e in particolare in quella pubblicitaria, sotto sotto le cose continuano a marciare come prima.
Anche l’avvento di Joe Biden alla guida degli USA, salutato e percepito da più parti come una profonda discontinuità rispetto a Trump, e che ha tra l’altro sancito il rientro degli USA negli accordi di Parigi sul clima, non credo che determinerà un radicale cambiamento rispetto all’attuale modello di sviluppo. Il punto è che, come è ben noto agli esperti di geopolitica, la prima priorità degli USA è mantenere e se possibile consolidare il proprio ruolo imperiale a livello planetario: “America first” dunque, per Biden come per Trump, per quanto i due hanno una retorica diversa; una dimostrazione evidente è stata la politica della vaccinazione anti COVID-19, dove Biden ha dato massima ed esclusiva priorità agli USA salvo poi proporre di togliere la protezione dei brevetti ai vaccini; sul piano pratico, per motivi di complessità tecnologica e di distribuzione, questa proposta sposta di poco o nulla l’immenso problema di vaccinare quasi 8 miliardi di persone.
Del resto la visione degli altri Paesi del Nord del mondo, insieme agli USA la parte ricca del pianeta[2], non è da meno: in un contesto caratterizzato da enormi problemi globali che necessiterebbero di accordi planetari con obiettivi stringenti, quantificati e verificabili – si pensi ai cambiamenti climatici, alla perdita di biodiversità, ma anche al diffondersi delle micro plastiche e nanoplastiche nei mari e negli oceani e non solo, per non parlare dell’attuale pandemia – gli Stati nazione continuano a manifestare interessi localistici contrapposti e conflittuali, e a praticare la vecchia visione di stampo ottocentesco sui temi di politica, economia, scienza e tecnologia, che è quella che ci ha portato all’attuale degrado dell’ambiente e alla concomitante enorme disparità tra ricchi e poveri. Va sottolineato a questo proposito che queste due criticità, come acutamente sottolinea Papa Bergoglio, sono interdipendenti.
In tutto questo, come il COVID-19 ha cambiato o sta cambiando le cose, e di quanto?
L’impressione è che i paesi del Nord del mondo continuano ad applicare quella che Christian Parenti chiama la “politica della scialuppa armata”: un mix opportunamente dosato di interventi contro-insurrezionali, frontiere militarizzate e una aggressiva politica anti-immigrazione[3]; se possibile la pandemia ha ulteriormente accentuato questo approccio, si pensi ad esempio alle politiche sull’immigrazione in Europa; ma anche negli USA con la nuova amministrazione la musica sull’immigrazione fondamentalmente non cambia, fatti salvi alcuni distinguo principalmente (anche se non solo) di carattere retorico.
Dunque in soldoni per il Nord del mondo la difesa dello status quo è la primissima priorità, con tutte le istanze di sicurezza annesse e connesse. Poi certo c’è il degrado ambientale, i cambiamenti climatici e via discorrendo, tutti temi che stanno aumentando di priorità, ma sempre subordinatamente a quello della sicurezza; anzi, a questo proposito c’è da dire che proprio gli apparati militari e di sicurezza sono da molti anni particolarmente attenti ai problemi del cambiamento climatico[4], a prescindere se al vertice dell’amministrazione c’è un repubblicano negazionista come Trump o un democratico come Biden; attenzione finalizzata soprattutto a mettere in atto le opportune contromisure contro tutte le pressioni che questo fenomeno globale può innescare, tipicamente l’accentuarsi dei fenomeni migratori: questo altro non è se non la politica della scialuppa armata.
E il resto del mondo?
Grosso modo, e semplificando all’estremo, ci sono i giganti come Cina e India (che insieme fanno quasi 2,8 miliardi di abitanti, più di un terzo della popolazione mondiale), la cui priorità è far raggiungere alle proprie popolazioni uno standard di vita comparabile a quello dell’Occidente; la Cina ha dichiarato recentemente di essere attenta al problema del cambiamento climatico, ma ha affermato altresì che per l’abbattimento dei gas serra aspetterà il raggiungimento di determinati obiettivi di crescita economica grazie anche alle fonti fossili.
La Russia, pur provando ad onorare l’accordo di Parigi sul clima, antepone a questo la priorità dello sviluppo economico; il Brasile sta addirittura cercando esplicitamente di indebolire la sua strategia climatica. Anno dopo anno assistiamo al propagarsi di incendi immensi in Siberia e in Amazzonia, senza contare lo scioglimento del permafrost[5] in Siberia.
Negli altri paesi, molti dei quali “in via di sviluppo”, spesso le élite hanno standard di vita comparabili (se non superiori) a quelli dei ricchi occidentali, a spese di un depauperamento delle risorse e dell’ambiente, e di un impoverimento della popolazione locale; il tutto in combutta con Stati occidentali o altre potenze interessate alle ricchezze minerali, come accade per il Congo, e al land grabbing[6] soprattutto da parte di USA, UK e Cina.
Un altro tema da considerare, anche in connessione con quanto appena esposto, è la fiducia incondizionata nelle possibilità della scienza e della tecnologia di aggredire e risolvere questi immensi problemi, mai verificatisi prima nella storia dell’umanità; questa fiducia ovviamente si manifesta soprattutto nelle nazioni con maggiori capacità scientifiche e tecnologiche. Ne consegue la tendenza a privilegiare l’intervento a valle del verificarsi dell’inconveniente (tanto non c’è problema che non possa essere risolto con la tecnologia), più che adottare un approccio preventivo. Una conseguenza è che, accanto al contributo formidabile di scienza e tecnologia al miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità soprattutto nel Nord del mondo, vi sono i concomitanti effetti collaterali negativi che si sono verificati, in particolare per quanto riguarda gli impatti sull’ambiente e sulla salute, spesso non previsti.
Così nel caso del COVID-19, per quanto da alcuni anni ci fossero numerosi campanelli di allarme sui rischi da pandemia, non si è riusciti ad evitarla; dopodiché bisogna riconoscere la capacità di scienza e tecnologia di rendere disponibili i vaccini in tempi straordinariamente rapidi (naturalmente nei paesi scientificamente e tecnologicamente più avanzati, ovvero Nord del mondo più Cina e Russia. Dopodiché anche i benefici dei vaccini sono appannaggio quasi esclusivo di questi Paesi. Alle popolazioni impoverite rimangono le briciole, spesso in funzione delle strategie geopolitiche dei Paesi più avanzati). Un approccio preventivo avrebbe implicato rischi, perdite di vite umane e costi immensamente inferiori, ma come ben sappiamo non è stato perseguito.
Analogamente nel caso dei cambiamenti climatici sarebbe più opportuno impegnarsi con decisione per una riduzione delle emissioni di gas serra a livello globale (approccio preventivo), piuttosto che dover affrontare costose e faticose azioni di adattamento una volta che il cambiamento si è verificato, senza parlare – qualora la situazione diventasse non più sopportabile – del possibile ricorso ad approcci ancora non maturi di geoingegneria quali la cattura e il sequestro del carbonio, o la schermatura dei raggi solari con interventi nella bassa atmosfera (troposfera), nell’alta atmosfera (stratosfera) o nello spazio. A parte i costi al momento proibitivi di queste tecnologie ancora in fase di sperimentazione, non si possono trascurare gli effetti collaterali indesiderati, considerando che la Terra è un unico ecosistema estremamente complesso, per cui alterare la fittissima rete di equilibri interconnessi potrebbe risultare molto rischioso. Anche in questo caso l’approccio preventivo, cioè il drastico abbattimento delle emissioni di gas serra, sarebbe di gran lunga preferibile, ma i fatti raccontano un’altra cosa, al di là della retorica di tanti capi di stato e di governo.
Se questo è il contesto, si capisce che un radicale cambio di rotta, una “conversione ecologica” a livello globale è una impresa non solo titanica, ma che ragionevolmente ha limitate probabilità di concretizzarsi in tempi utili per evitare catastrofi ambientali e sanitarie ancor maggiori di quelle con cui siamo alle prese. Un cambiamento di visione quale quello auspicato, ammesso che si inneschi, avrà infatti bisogno di molti anni per propagarsi, maturare e consolidarsi, quando i processi che si sta tentando di arginare sono oramai in atto, gli impatti sono già chiaramente visibili e nel giro di pochi decenni il rischio di crisi sempre più gravi aumenterà a dismisura.
È realistico pensare che in molte think tank dell’Occidente e di Cina e Russia – ma non solo – si consideri inevitabile un severo peggioramento delle condizioni climatiche e ambientali, e delle connesse problematiche sanitarie, e questo induce a un rafforzamento delle politiche di sicurezza e a una più radicale contrapposizione di interessi. Ciò anche alla luce di una crescente consapevolezza della scarsità delle risorse planetarie, assolutamente insufficienti per assicurare a tutta la popolazione del pianeta – ma anche solo agli abitanti di Cina, India, Russia e Brasile tanto per fare un esempio – il livello di benessere occidentale, scarsità che è ulteriormente aggravata dalle crisi climatiche e ambientali.
D’altra parte è realistico pensare anche che le élite dei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” in combutta con le nazioni dell’Occidente o con altre grandi potenze, a cui di fatto cedono importanti quote di risorse naturali e di territorio, pensino comunque di poterla fare franca grazie al sostegno di queste potenze, mantenendo il proprio status anche in situazioni di maggiore stress ambientale, climatico e socio-economico dei paesi che governano[7].
Come andrà a finire?
Se si deve estrapolare linearmente c’è poco da essere ottimisti: malgrado la diffusa retorica sulla protezione dell’ambiente e sulla lotta ai cambiamenti climatici, spesso arricchita con affermazioni riguardanti la piena fiducia nella scienza e nella tecnologia nel risolvere tutti i problemi presenti e futuri, e magari pure con qualche accenno ai sacrosanti diritti degli ultimi del pianeta che bisogna salvaguardare, sarà molto difficile ridurre significativamente le emissioni di gas serra in misura tale da limitare il riscaldamento globale a livelli ritenuti accettabili, con conseguenti ulteriori disastri ambientali, sanitari e socioeconomici.
Di fatto la realtà non è lineare, e dunque non si deve trascurare la possibilità di bruschi mutamenti – nel bene e nel male – che inducano radicali cambi di traiettoria anche per quanto riguarda l’attuale modello di sviluppo, che è chiaramente non sostenibile.
E nel concreto, cosa si può fare?
Su questo mi sembrano degne di nota le conclusioni del bel saggio di Amitav Ghosh “La grande cecità – Il cambiamento climatico e l’impensabile” (2016, ed. italiana 2017, già citato nelle note 4 e 7 di questo articolo), che vede il segno di speranza più concreto nel sempre maggiore coinvolgimento di gruppi e leader religiosi: Papa Francesco ma anche hindu, musulmani, buddhisti e altri gruppi e organizzazioni. Questo perché, anche sulla base di quanto argomentato sopra, le istituzioni politiche del nostro tempo si stanno di fatto rivelando incapaci di affrontare questa crisi.
Per quanto riguarda le associazioni e i movimenti laici queste sicuramente possono contribuire, ma visti i tempi molto ristretti è necessario mobilitare in poco tempo masse imponenti, e “le organizzazioni in grado di mobilitare più persone sono quelle religiose” (Amitav Ghosh, cit., pag 192). Questa affermazione può sembrare strana a noi occidentali che viviamo in una realtà fortemente laica, ma la situazione in altre parti del mondo – e sono quelle di gran lunga più popolose – è diversa.
Che si concordi o meno sul ruolo delle organizzazioni religiose nel cambiare il corso delle cose a livello globale, credo che il principale impegno di noi tutti debba essere quello di favorire, con tutti i mezzi di cui ciascuno di noi dispone, la nascita di una generazione capace di avere uno sguardo più lungimirante di quelle che l’hanno preceduta.
[1] Lynn White, Jr., 1967. The Historical Roots of Our Ecologic Crisis. Science, Vol. 155, No. 3767, pp. 1203-1207, pag. 1206.
[2] Il “Nord del mondo” è l’insieme degli stati ricchi e industrializzati: USA, Canada, stati europei, Giappone, Australia, Nuova Zelanda. L’espressione “Sud del mondo” indica gli stati poveri. L’espressione “Nord del mondo” indica gli stati ricchi, anche quelli dell’emisfero meridionale.
[3] Christian Parenti, Tropic of Chaos: Climate Change and the New Geography of Violence, Nation Books, New York, 2012, pag. 225.
[4] “L’attenzione riservata al surriscaldamento globale dall’apparato militare statunitense è tale che una volta il colonnello Lawrence Wilkerson, ex capo di stato maggiore del segretario di stato Colin Powell [durata dell’incarico dal gennaio 2001 a gennaio 2005 sotto il presidente George W. Bush], l’ha sintetizzata con queste parole: «A Washington […] l’unico ministero che abbia piena consapevolezza della realtà del cambiamento climatico è il ministero della difesa». (Amitav Ghosh, La grande cecità – Il cambiamento climatico e l’impensabile. Neri Pozza, 2017, pag. 170).
[5] Composto di perma(nent) «permanente» e frost «gelato»: strato di terreno gelato, probabilmente di origine glaciale, che, a diversa profondità, si trova sotto la superficie terrestre, specialmente alle alte latitudini. Lo scioglimento del permafrost comporta criticità importanti collegate sia al rilascio in atmosfera di gas serra (anidride carbonica, metano e protossido di azoto) che a problemi di stabilità del territorio interessato dallo scioglimento del permafrost, con profonde e improvvise modifiche del territorio e possibili collassi di infrastrutture e altre costruzioni che vi poggiano sopra.
[6] Il termine land grabbing significa, letteralmente, “accaparramento di terre”. Le aziende, soprattutto le multinazionali occidentali e più recentemente la Cina, puntano ad acquisire (con modalità spesso non proprio trasparenti) enormi estensioni di terreno da utilizzare per la coltivazione intensiva di prodotti da esportare (in particolare, sono utilizzate per produrre materie prime che, a loro volta, saranno utilizzate per la produzione di biocarburanti). Le conseguenze sono il depauperamento del suolo e l’impoverimento delle popolazioni che vi vivevano da decenni se non da secoli, costrette a spostarsi con metodi che spesso violano i diritti fondamentali.
[7] “Ma a sostenere l’onere del cambiamento climatico non saranno le classi medie e le élite politiche del sud globale, bensì i poveri e gli indifesi” (Amitav Ghosh, La grande cecità cit., pag. 179).