St. Gemma Hospital: l’inizio
Un po’ in ansia, ma con la voglia e la curiosità di vedere, osservare e toccare con mano una realtà completamente diversa, mettiamo piede per la prima volta nell’ospedale di San Gemma a Dodoma in Tanzania.
Ci siamo, abbiamo voglia di vedere ogni parte dell’ospedale, ma non vi nascondiamo che la curiosità di entrare nel reparto maternità supera di gran lunga qualsiasi altro desiderio in questo momento.
Eccoci, siamo davanti il reparto maternità, nel ward 9. Vediamo un medico venirci incontro, per fortuna, perché non abbiamo la minima idea di come presentarci, di cosa dire. Siamo un po’ spaventate.
Il dottore si presenta e fa lo stesso con tutto il personale di turno in maternità: Vaileth (la caposala, con cui instaureremo un bellissimo rapporto), Christina (il suo modo di fare, il suo sorriso, il suo scherzare e il suo spirito take it easy ci conquisteranno), Sister Margherita (parla italiano, diventerà la nostra confidente, ci farà ridere e ci farà sentire a casa). Con il passare dei giorni incontreremo tutto il resto del personale sanitario: l’ospedale è piccolo, si conoscono tutti.
Il 10 agosto inizia quindi il nostro primo turno. La realtà che vediamo un po’ ci intimorisce: il pensiero di non riuscire ad essere all’altezza del contesto ci ha sfiorato? Sì, ma vogliamo esplorare, capire. Le nostre teste iniziano ad inondarsi di domande critiche e il nostro istinto di difesa, seppur prevenuto, prevale. Non riusciamo a comportarci diversamente, l’idea del “Andiamo e ci facciamo sentire!” ha la meglio.
Loro non si fidano di noi e noi facciamo lo stesso con loro.
Ma un giorno succede che, tornate a casa, invece di dirci “Ma cosa fanno? Ma come lo fanno? Ma dai, non si può vedere!”, iniziamo a chiederci: “Ma in effetti perché lo fanno? Perché prendono determinate scelte anziché altre? Perché dovrebbero fidarsi di noi ad occhi chiusi? Perché dovrebbero fare come vorremmo noi e, soprattutto, chi siamo noi per pensare che quello che abbiamo visto e fatto nel nostro contesto, con i nostri tempi e con le nostre risorse, sia giusto anche qui? Chi siamo noi per non rispettare i loro tempi e i loro modi?”
Ed è così che arriva il momento di mettersi in discussione, di avere voglia di dare e ricevere, di mettersi davvero in gioco, con pazienza e forza di volontà.
Iniziamo a capire che quel voler andare e fare, imporsi a tutti i costi, non era altro che un senso di appagamento che volevamo provare nei confronti di noi stesse, ma che sicuramente non avrebbe fatto sentire appagati loro.
All’inizio é facile partire e dirsi: “No, assolutamente non voglio impormi, sarà uno scambio alla pari.”, ma sul campo è tutt’altra storia.
Cominciamo quindi a soffermarci sulle piccole cose, a guardare l’altra faccia della medaglia, la loro cultura, le loro tradizioni: una mamma che aiuta un’altra con il suo piccolo, un letto condiviso da due donne in dolce attesa, una bibbi (nonna) che porta l’acqua per lavarsi a una donna che non è sua figlia, i parenti di una paziente che ci aiutano a trasportarne un’altra dalla sala operatoria, il loro chiamarsi dada (sorella), senza che ci sia nessun legame di sangue. Scopriamo il vero significato della parola condivisione.
Entrare in una stanza piena di donne in dolce attesa e rendersi conto del fatto che ognuna sappia il nome e il letto delle altre. Non è meraviglioso?
Noi piano piano questa meraviglia la sentiamo sempre più addosso, la prendiamo per mano con sempre più passione e intensità, rimanendo noi stesse, qui, in un contesto diverso dal nostro, ma con maggiore consapevolezza, con valori aggiunti e una visione più ampia del nostro piccolo grande mondo.
Grazie Dodoma, grazie San Gemma Hospital.
Antoniana Losito e Letizia Baratta, Caschi Bianchi a Dodoma, Tanzania con AUCI
foto prese dal sito auci.org