L’UOMO BIANCO

Fai finta di non averlo sentito, quel saluto che tanto vuoi evitare, quel nome a cui non vuoi essere associato.. proprio me chiamano gringo!!
Dedichi anima e corpo per inserirti nel contesto in cui ti immergi, per entrare in simbiosi con l’intorno sociale e culturale che ti accoglie, con passione cerchi di trasmettere un sentimento di apertura totale e di sintonia, per provare a creare una relazione paritetica con il diverso che tanto diverso non vuoi che ti percepisca… cerchi di imparare la lingua, di mangiare il loro cibo, cerchi di conoscere le comunità attraverso canali non convenzionali, come amico e non come turista.. eppure questa tua pellaccia bianca non te la leva nessuno.
La parola Gringo, infatti, nasce secondo alcuni studiosi dal termine inglese green, che era il colore dei soldati degli Stati Uniti e la parola go=vattene: “Militare statunitense vattene”. In Messico è utilizzata maggiormente per definire gli statunitensi e spesso assume un accezione negativa, mentre in Perù viene utilizzata molto spesso anche per gli europe.
Atalaya, regione Ucayali, alle porte della selva più piena. Ancora immersi nell’oscurità delle 4 del mattino navighiamo sul fiume Tambo verso Betania e Sharahuaja, comunità asháninka casa di due ragazzi conosciuti a Nopoki. L’alba sul fiume è lo spettacolo che vale la pena pagare con poche ore di sonno, l’aria umida e pungente e una scomoda panchina in mezzo ai caschi di banane verdi.
A due ore dal porto di Atalaya, risalendo il fiume verso Puerto Ocopa, Betania è la seconda comunità asháninka più grande della regione, dopo Poyeni. E come Poyeni i sui abitanti hanno dimostrato il proprio valore negli anni ’90 prendendo parte all’organizzazione dell’ Esercito di Autodifesa Asháninka, durante il periodo del terrorismo di Sendero Luminoso (organizzazione terrorista guerrigliera di ispirazione maoista).
Sharahuaja si trova sull’altro lato del fiume. La comunità molto più piccola manca anche di alcuni servizi che invece Betania offre o potrà offrire di lì a pochi mesi: negozi, corrente elettrica, antenna telefonica. In entrambe però non manca l’aria di ospitalità e familiarità: si passa a salutare la sorella maggiore di Feliciano e si finisce a tavola a provare “chupishpa” (brodo di pesce con banana) e bere masato (bevanda tradizionale fatta con yucca e camote fermentati, tradizionalmente preparata dalle donne che masticandola e sputandola stimolano il processo di fermentazione della yucca), andandosene con un sacchetto pieno d’arance appena raccolte. Non contenti anche dalla zia ci si riposa dal sole cocente mangiando spaghetti in brodo e bevendo una capiente tazzona di masato.
E infine si aspetta l’imbarcazione per Betania masticando canna da zucchero, improvvisando due tiri a pallone coi più piccoli e… sorseggiando caraffe di masato.
Le donne si riuniscono presso la casa della famiglia ospitante a chiacchierare e bere, circondate da mille bambini di tutte le età. La barriera linguistica, il non poter captare le loro conversazioni, ti ricorda il tuo essere estraneo, però l’aria si fa più distesa e familiare grazie alle risate che ci strappano le facce dei bambini incuriositi dalla barba della “scimmia-Davide” (l’altro volontario in servizio con Anna N.d.R.).
Betania, che ci aspetta dall’altra parte del fiume, si sviluppa come una piccola cittadina di più o meno 250 famiglie: stradine di terra che dividono i lotti in griglie ben ordinate e in quartieri coi loro nomi, piazza centrale, salone comunale, chiesa avventista, casette di legno e palma al fianco di orti con yucca, banani cocchi. L’ospitalità della famiglia di Jayleer è indiscutibile. Condividono con noi il loro cibo e ci offrono quello che hanno per farci sentire a nostro agio.
La comunità offre anche l’ “attrattivo turistico” delle piscine naturali, un bel posticino con cascatelle e insenature del fiume dove poter nuotare, ad una ora di camminata dalla zona abitata, immerso nella foresta amazzonica. La domenica mattina ci aspetta una camminata rinfrescante tra la vegetazione fitta e la risalita del fiume a piedi nudi tra le rocce: noi due italiani che avanziamo goffi e barcollanti e i quattro ragazzi asháninka che a piedi nudi o con le infradito passeggiano senza batter ciglio anche in mezzo al bosco. Fino ad arrivare alle cascatelle dove i ruoli si invertono: noi “quasi nudi”, in costume da bagno, ci rinfreschiamo nell’acqua limpida e loro che, per vergogna o per pudore, si immergono vestiti. È il risultato di decenni di evangelizzazione e occidentalizzazione che ha tanto allontanato la naturalezza del corpo umano dalla naturalezza della selva? Il vestito tradizionale asháninka, la cushma, è senza dubbio molto coprente in confronto ai vestiti di altri gruppi etnici della selva bassa, ma non possiamo negare che l’intervento dei missionari cattolici e protestanti abbia modificato in modo sostanziale la gestione della corporalità di queste persone.
Gli abitanti di Betania stanno già pensando a questo angoletto di paradiso come un potenziale turistico da sfruttare insieme alla propria identità culturale (e chi più di loro ne ha il diritto). È inevitabile quindi confrontarsi con la famiglia ospitante su queste tematiche e suggerire strategie di marketing culturale che alle mie orecchie stridono più che mai, ma che sono una risorsa per la “conservazione” (e etnicizzazione) della loro cultura e per una minima redistribuzione della ricchezza economica..
Come, allo stesso tempo, è inevitabile essere percepiti e trattati noi in primis come turisti: è arrivato il gringo di turno a cui chiedere 80 soles di entrata con guida alle piscine, il gringo a cui vendere l’artigianato tipico o cantare qualche canzone tradizionale per 15 soles. È arrivato quel pollo di un gringo a cui alzare il prezzo dell’imbarcazione e del motocarro, che lo porterà stanco ma tranquillo fino alla casa-bungalow che gli hanno rifilato perché “sicura-adatta ai suoi standard-molto costosa”, ma soprattutto proprietà dell’ “amico professore” che tanto bisogno dei soldi occidentali forse non ne ha.
Dannata pellaccia bianca!
Anna Moschini, Casco Bianco con FOCSIV a San Ramon, Perù.