PAÒLA

Sono seduta con Paóla (l’accento va sulla o) nella sala d’attesa di una clinica di Quito (nella foto: una donna colombiana). E’ la terza volta che mi ritrovo insieme a lei in questa sala d’attesa e, per ingannare il tempo, chiacchieriamo.
Paola é praticamente mia coetanea, ha 26 anni, e per questo mi viene voglia di chiederle cosa fa nella vita, cosa le piace, con chi vive. Già la prima volta che ci siamo incontrate sembrava a suo agio e dopo alcune frasi di convenienza abbiamo subito instaurato un bel rapporto.
La prima volta che ci siamo viste Paola mi aveva detto che aspettava un maschio e che si sarebbe chiamato Mateo, ma qualche istante dopo l’ecografia le aveva rilevato che si trattava di una femmina. Io, piuttosto emozionata, le avevo chiesto se era contenta e lei mi aveva risposto che insomma, non le dispiaceva, ma che per il maschio aveva già deciso anche il nome!
Al nostro secondo appuntamento Paola aspettava per fare gli esami del sangue, era ormai quasi al sesto mese di gravidanza e non aveva praticamente mai fatto una visita per controllare che la bambina fosse in buona salute. “Quanti anni hai?” mi chiese. “24 anni e sei laureata in diritto!” ripeté subito dopo. Paola mi guardava con evidente invidia e io un po’ mi sentivo in colpa sotto quello sguardo. Quel giorno mi disse che ai suoi bambini avrebbe spiegato le cose come stanno, che non avrebbe nascosto loro niente e che sperava potessero un giorno viaggiare e conoscere il mondo, come me.
Oggi siamo di nuovo nella clinica e aspettiamo che la dottoressa controlli gli esami del sangue e rilasci il certificato che serve a Paola per poter viaggiare. Mi racconta della sua infanzia e giovinezza passate a Caquetà, nel sud della Colombia, in piena foresta amazzonica. Con i suoi genitori e le sorelle viveva in una finca, dove quotidianamente erano visitati da membri della guerriglia che venivano a reclamare il pizzo. Mi dice che per ogni mucca dovevano pagare 8 dollari al mese, e che rifiutarsi avrebbe significato la morte. Abbassando la voce mi dice che era gente cattiva, che non si sentiva mai veramente tranquilla, perché ogni volta che i guerriglieri arrivavano non sapeva cosa aspettarsi e che avrebbero potuto abusare di lei come reclutarla e portarla per sempre via, lontana dalla sua famiglia. Mi dice che la piaceva andare al liceo, ma che a 18 anni, dopo aver conosciuto un ragazzo ed essere rimasta incinta, non aveva più potuto tornare a studiare. “18 anni!” ripeto io stupita, e lei mi risponde che le era andata bene, perché nello stesso anno era rimasta incinta anche sua sorella, che però di anni ne aveva 15. Poi mi racconta di come un giorno le pressioni della guerriglia erano diventate sempre più forti e di come avevano assassinato suo nonno che si era loro opposto. In seguito a questo episodio avevano deciso di partire, lasciare tutto e venire in Ecuador nella speranza di poter vivere una vita normale.
Le chiedo com’è vivere in Ecuador, se non hanno subito discriminazioni e lei mi risponde sorridendo che si, a volte per essere colombiani si sentono dire cose brutte, ma che il solo fatto di poter alzarsi al mattino senza il terrore di vedere arrivare i guerriglieri è una sensazione meravigliosa che cancella tutte le brutte parole ricevute. Le chiedo cosa le piacerebbe fare un giorno e, arrossendo un po’, mi risponde che le piacerebbe diventare odontoiatra, chissà, magari con una borsa di studio! Ma soprattutto sogna un futuro di successo per i suoi figli e mi confessa che le farà strano sentire parlare i suoi bambini in inglese. “Saranno molto più bravi di me!” esclama orgogliosa.
La dottoressa ci chiama ed entriamo nel piccolo studio. Controlla gli esami e dichiara che c’è un’infezione urinaria e che quindi non può rilasciare il certificato di buona salute. Paola mi guarda allarmata, allora le dico che non è grave, che dovrà prendere le medicine prescrittele dalla dottoressa e che torneremo fra 10 giorni per farci dare il certificato. Usciamo dalla clinica e andiamo a comprare il trattamento per la cistite, Paola fra sé e sé ripete “certo che le prenderò, eccome le prenderò queste pastiglie, non voglio mica rimanere qui!”. Un attimo dopo siamo su un autobus che ci porta a nord di Quito, all’ufficio di HIAS dove lavoro. Paola mi guarda pensierosa e mi chiede di ripeterle il mio nome, e io capisco che sta valutando se chiamare come me la sua bambina. “Muriel”, ripete accigliata “…che nome strano”. No, definitivamente sua figlia non porterà il mio nome. “Joseline, penso che la chiamerò così”, mi dice allora con aria soddisfatta e io le rispondo che è un nome molto bello e che a una bambina che nascerà sul suolo statunitense starà benissimo!
Paola, fra tre settimane, partirà con i suoi bambini per gli Stati Uniti e andrà a vivere a Chicago. Fa parte di quell’1 per cento, fra i 10,5 milioni di rifugiati che rientrano nella competenza dell’UNHCR in tutto il mondo, che viene individuato dall’agenzia come possibile beneficiario di reinsediamento. Nella circostanza in cui alcuni rifugiati non possano o non vogliano tornare a casa perché sarebbero sottoposti a continue persecuzioni o perché vivono in situazioni rischiose o hanno necessità specifiche che non possono essere soddisfatte nel paese in cui hanno cercato protezione, l’UNHCR offre ai rifugiati, come soluzione durevole e sicura, il reinsediamento in un paese terzo (nella foto: colombiani appena naturalizzati ecuadoriani che mostrano orgogliosi la loro nuova carta d’identità grazie ad un progetto dell’UNHCR, in cooperazione con HIAS, partner del progetto di servizio civile). Solo pochi paesi prendono parte ai programmi di reinsediamento. Gli Stati Uniti sono coloro che ricevono più rifugiati, ma anche l’Australia, il Canada e i paesi del nord Europa offrono ogni anno un buon numero di posti. I paesi di reinsediamento garantiscono ai rifugiati protezione fisica e legale, ma anche l’accesso ai diritti civili, politici, economici, sociali e culturali simili a quelli riconosciuti ai propri cittadini).
Il reinsediamento è una vera e propria sfida, perché spesso i rifugiati sono reinsediati in un paese con una società, una lingua e una cultura completamente diverse e nuove rispetto alla loro, e Paola lo sa. Ma è anche un’esperienza che cambia la vita e io mi sento felice di aver potuto condividere anche solo un piccolo momento dell’attesa e dei sogni di Paola.
Muriel Vicquery, Casco Bianco con FOCSIV a Quito, Ecuador.