Tra Dissonanza ed Empatia

La chiamano empatia di prossimità: è un concetto con il quale dovremmo essere familiari. Del fatto che certe situazioni, certe notizie, certe immagini ci tocchino più di altre. Di quanto siamo parti di narrative che si propagano con il pilota automatico. Di quanto la bellezza di essere umani sia anche riuscire, una volta ogni tanto, ad uscire da questi schemi. Ma molto più spesso ci siamo dentro, e forse dovremmo imparare a conviverci.
La chiamano anche dissociazione cognitiva: anche in questo caso si procede sui binari, ma stavolta ponendo una distanza vertiginosa tra noi e un tema scomodo, inconcepibile, semplicemente lontano dall’esperienza.
Questi due mostri sacri, insieme, sono il binocolo della nostra epoca. Una lente ingrandisce e l’altra rimpicciolisce. Insieme, concertano l’immagine che ci arriva letteralmente addosso. Tra una lente e l’altra, molte cose vanno perse. La nostra percezione non è parziale, ma frammentata. Ridotta a minuscole particelle sparse.
Ma nel concreto, di cosa parliamo? Forse di rotte narrative che si scontrano. Di messaggi che non arrivano al destinatario, ma che si propagano nell’aria come nubi di vapore. Ne vieni investito, ma non li cogli mai veramente a pieno.
Metafore a parte, cos’è davvero l’empatia? Qualcuno potrebbe dire, semplicemente: sapersi immedesimare. Non avrebbe torto, ma neanche del tutto ragione. L’empatia è l’arte del travestimento per eccellenza. Nel momento in cui ti sintonizzi con le emozioni e il sentire di qualcuno, tu diventi quel qualcuno. Respiri aria diversa, vedi con occhi diversi. Ciò che ti attraversa muta impercettibilmente e ti accompagna su percorsi insospettabili.
L’empatia di prossimità è entrare nelle scarpe del tuo vicino. Ci puoi camminare dentro quanto vuoi, anche a lungo. Però a un certo punto cominceranno a farti male. Non sono esattamente della tua misura. E quel dolore ti vuole comunicare qualcosa. Sicuramente vorrebbe renderti consapevole di qualche sassolino incastrato tra la suola e la pianta del tuo piede. Come anche di quanto sia facile avere freddo o caldo quando si hanno i talloni bucati.
Tuttavia, già se cammini un po’ e cambi scarpe, cominci a sentirti strano. Queste nuove calzature hanno una forma strana. Un odore particolare. Ti forzano ad assumere una postura per te innaturale e come risultato finisci per inciampare ovunque. Camminare diventa sempre più difficile. Adattarti al nuovo passo che ti viene imposto sempre meno immediato. Magari ci provi, ma è più facile che ti arrenda. In fondo, con un paio di scarpe adeguate, puoi arrivare più lontano e più in fretta. Come tra l’altro il mondo che ti gira attorno, in continua evoluzione e sempre in accelerazione, ti invita a fare.
Nessuno ti obbliga veramente ad andare veloce. Per comprendere qualcosa di molto lontano dalla tua esperienza, una delle buone pratiche è quella di rallentare. Semplice e immediato, eppure meglio non rischiare.
Ed eccoci arrivati alla dissociazione. Solitamente questa parola ci fa pensare ad uno stato psichico alterato, in cui il soggetto non riesce a percepire la realtà se non in lontananza, come un velo opaco che si agita nel vento. E del resto meglio così. Quel velo che si muove potrebbe essere qualsiasi cosa. Una mano amica che saluta oppure un’arma che viene caricata. Un treno che si avvicina o un aquilone che sventola sulla testa di un bambino. Una carovana in movimento o un accampamento di nemici. Così meglio non farsi venire il dubbio. Mantenersi a distanza potrebbe salvarci non solo dal pericolo, ma anche dall’ansia del pericolo. Il grande mostro del nostro tempo, che ci paralizza al punto da impedirci di prendere qualsiasi tipo di posizione. Non che non sia comprensibile, vivere tranquilli è divenuto un lusso per pochi. Però forse sarebbe il caso di rifletterci un po’: meglio temere l’onda che arriva o non vederla arrivare?
Me lo chiedo perché sono un Corpo Civile di Pace, una volontaria internazionale, e sul campo non posso proprio permettermi di distogliere lo sguardo. La mia empatia, che a casa potevo anche tentare di nascondere in qualche baule dimenticato in cantina, ora si aggrappa a tutto. Si attacca agli orli dei vestiti e ai cartelli dei manifestanti. Agli angoli delle strade gremite di persone in protesta. Alle voci spezzate e ai canti rubati di persone che lottano ogni giorno per vedere rispettati i propri diritti.
Al momento il Perù si trova in una congiuntura particolare. Il governo di Dina Boluarte ha imposto progetti di estrattivismo ignorando le richieste e i diritti delle popolazioni locali. Le proteste sono andate incontro a violente repressioni. Molti i casi di contaminazione riportati, con alti livelli di metalli pesanti riscontrati nei fiumi che irrigano i campi e forniscono acqua ai centri urbani vicini. Particolarmente pressante al momento il caso del fiume Rimac, che giunge fino a Lima fortemente inquinato e compromesso da più progetti minerari situati alla sua sorgente. Un Frente de Defensa (Fronte di Difesa, ovvero una coalizione di movimenti e soggetti che si uniscono per un obiettivo comune N.d.R.) si sta al momento organizzando, ma è solo un’eco comparato con quanto accade in molte altre regioni del Perù. La maggior parte del territorio andino è in concessione alle multinazionali e quindi esposto alla possibile installazione di progetti di estrazione esteri. La popolazione è stremata, fortemente danneggiata in termini di unità sociale, salute e impatto economico.
Non assistiamo a niente di nuovo, per quanto peculiare e distinto. Società imperfette che tentano di migliorarsi. Come la nostra società italiana, che in questi anni deve affrontare sfide importanti e che ha bisogno di superare ondate di incertezza e di paura del futuro. Il panorama non è affatto roseo. Il cambiamento climatico ci rincorre con la sua costante presenza, le politiche pubbliche arrancano dietro a una globalizzazione galoppante. La politica internazionale si tinge di scandali e ritorsioni.
Io ho vent’anni e mi chiedo: cosa c’è là fuori per me? Ma ho capito che una cosa, di concreto, posso farla ogni giorno. Cercare di calibrare bene il mio cannocchiale, in modo da avere sempre sotto mano una lente di lettura ben lucidata. Magari tentare di aiutare anche altri a fare lo stesso. Spostare l’empatia verso gli orizzonti lontani dai quali automaticamente ci dissociamo. Vedere se con un po’ di sforzo riesco a costruire una prospettiva nuova, un orizzonte civile di possibili soluzioni comuni. Anche perché, se devo voler vedere risolti solo i problemi che posso scorgere a occhio nudo, forse non avrò modo di vedere il sole sorgere.
Alessandra Innocenti, Corpo Civile di Pace con COPE a Lima, Perù.
Foto: Red Muqui, Escuela Muqui 2025 (https://muqui.org/)